Anton Dante Coda, Un malinconico leggero pessimismo. Diario di politica e
di banca (1946-1952), a cura e con introduzione di Gerardo Nicolosi
di banca (1946-1952), a cura e con introduzione di Gerardo Nicolosi
È una generosa operazione culturale quella che la Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura ha realizzato in collaborazione con Gerardo Nicolosi, storico del liberalismo italiano. Lo spunto progettuale di questo volume è nato in condivisione con una proposta di ricerca comparata dell’Archivio Storico di Intesa Sanpaolo: studiare i Presidenti della Liberazione, eletti nelle maggiori banche italiane all’indomani della Resistenza. L’ABI, Associazione Bancaria Italiana, ha raccolto i profili delle figure apicali emerse dopo la Liberazione nella pubblicazione Banche e banchieri per la ricostruzione, uscita nel 2015.
Ogni diario del periodo della grande transizione porge una testimonianza insostituibile e unica, ma la possibilità di porre a confronto diversi diari coevi – come quelli di Alfredo Pizzoni, Tommaso Gallarati Scotti, Stefano Jacini (di prossima pubblicazione), e in particolare per la Comit, di Massimiliano Majnoni d’Intignano – fornisce un supporto interpretativo che travalica la lettura dei singoli testi. Con Anton Dante Coda (1899-1959) il curatore ci conduce nel mondo dell’Istituto bancario di San Paolo di Torino, con una visuale molto ravvicinata del liberalismo (piemontese, italiano e internazionale), ma si leggono in controluce passaggi e avvenimenti che interessano la politica economica italiana e l’intero sistema bancario. L’apparato interpretativo deve aver richiesto un investimento di tempo notevole, perché occorreva sciogliere una selva di nomi e presenze che compaiono in una prosa tipica di un uomo d’azione: veloce, sintetica, e solo poche volte di tipo narrativo. Il lettore è ben guidato dalle puntuali note e dall’Introduzione biografica.
Anton Dante Coda, biellese, fu fedele seguace di Giovanni Giolitti anche nel periodo difficile degli anni Venti e restò indissolubilmente legato ai “padri spirituali”, Francesco Ruffini, Marcello Soleri, Luigi Einaudi e Benedetto Croce («la cui amicizia – scrisse Coda visitandone la salma a Napoli nel 1952 – costituì l’onore massimo della mia vita»). Direttore del giornale «La Tribuna biellese» fino alla soppressione della libertà di stampa a fine 1925, rimasto poi in contatto con gli antifascisti in Italia e all’estero, arrestato nel 1935 e prosciolto con l’aiuto di Vittorio Emanuele Orlando e di Caviglia, fu tra i protagonisti della resistenza di marca liberale prima a Torino (offrendo la sua casa per le riunioni del Comitato di tutte le opposizioni) e dopo l’8 settembre 1943 a Milano (con la formazione “Franchi” di Edgardo Sogno, nel periodo più buio dell’occupazione tedesca e della Repubblica di Salò), com’è narrato in un altro diario, di Virginia Minoletti Quarello, Via privata Siracusa (edito da Ultima spiaggia, Recco, 2016), pubblicato, per la prima volta nel 1946, a ridosso degli avvenimenti.
In considerazione del suo ruolo nella resistenza, la carica nel San Paolo gli fu offerta sotto gli auspici del governatore della Banca d’Italia, Luigi Einaudi, che conosceva Coda dagli anni Venti, nell’aprile 1946. In contemporanea, avveniva la fondazione di Mediobanca, la cui presidenza fu affidata a un altro protagonista dell’antifascismo, Eugenio Rosasco, industriale di Como, figura che è più volte citata nel Diario insieme a molti altri compagni di battaglie.
Coda, frequentemente oggetto di attacchi e opposizioni, tanto che per il suo insediamento al vertice del San Paolo dovettero trascorrere ben sei mesi, si trovò a fronteggiare le numerose crisi e scissioni dei liberali nell’immediato dopoguerra, frequentando tra l’altro a Roma l’ambiente del «Risorgimento liberale» e poi del «Mondo»; il suo Diario riporta numerosi dettagli sui difficili rapporti con la Democrazia Cristiana (nei confronti della quale Coda ribadisce più volte il suo fermo laicismo), mentre più sporadici e sfumati sono gli accenni al Partito d’Azione, a proposito del quale, pur mantenendo amicizia e rispetto per i combattenti nella Resistenza, Coda confessa la propria distanza dallo «snobismo intellettuale» che li avvicinava ai comunisti (si veda ad esempio sotto la data del 26 dicembre 1946), e ne osserva le trame «massoniche» per aggiudicarsi varie cariche.
Ma Coda non scelse la vita politica e si dimise dalle cariche del Partito nel 1949, con l’intenzione di continuare come «semplice gregario» l’assidua vigilanza per tenere distinti i liberali dai monarchici, dai nostalgici del fascismo e dai seguaci dell’Uomo Qualunque, fino alla riunificazione della corrente scissionista liberaldemocratica guidata da Carandini, nel 1951. Precise sono le sintesi delle frequenti riunioni a livello centrale e locale del Partito Liberale, nelle quali Coda svolge con energia un ruolo di mediatore e chiarificatore, dedicando molte delle proprie energie personali alla sopravvivenza dello schieramento liberale, caratterizzato da una tradizionale cultura della buona amministrazione fondata su un solido background storico, che veniva metodicamente alimentato mediante i cerimoniali in omaggio dei protagonisti scomparsi (da Cavour, a Giolitti, ai Sella, a Ruffini), cui Coda era di regola presente, anche come oratore. Un valore documentario indubbio hanno le verbalizzazioni dei colloqui con Luigi Einaudi e con Benedetto Croce, dalle lezioni di economia del primo, alle confidenze e agli sfoghi umorali di entrambi, ai bei ritratti d’ambiente con descrizione dei personaggi incontrati. Con Einaudi e Croce si valutano spesso azioni, comportamenti e affidabilità di diversi soggetti, con la chiara demistificazione di alcuni (Antonicelli, Cajumi, Merzagora, Nitti) e controversi giudizi verso altri (Salvemini).
Coda ritrae se stesso, e il Presidente Einaudi, come combattenti di dure battaglie in tempo di pace; annota con malinconia – da qui il bel titolo del volume – come fosse sempre in aumento il numero dei propri nemici, e come il Presidente Einaudi evitasse di ribattere agli ingiuriosi attacchi se non quando strettamente necessario.
Le cronache del Diario, mai prolisse e anzi sintetiche, ci portano nelle sale del Quirinale, alle sedi della Banca d’Italia, dell’IRI (e qui va segnalato che nel 1950 Coda non volle accettare di candidarsi alla successione di Enrico Marchesano alla Presidenza), mentre assai meno visitati furono i gabinetti dei ministri. Si comprendono i suoi rapporti di fiducia con Donato Menichella, con Stefano Siglienti (un protagonista della resistenza a Roma, premiato prima con la nomina a Ministro delle Finanze nel primo governo Badoglio in quota al Partito d’Azione, e poi con le Presidenze dell’Istituto Mobiliare Italiano – IMI – e dell’Associazione Bancaria Italiana), con Marchesano stesso (che Coda sperava di attirare verso i liberali) e col Ministro Giuseppe Pella, spesso visitato da Coda. Pella, democristiano biellese di origine, successore di Einaudi al Ministero delle Finanze nel 1947, europeista simpatizzante verso l’iniziativa privata, stimolò tra l’altro l’istituzione del Mediocredito Piemontese, sorto dagli accordi tra l’Istituto bancario di San Paolo e la Banca Popolare di Novara nel 1951. Coda racconta inoltre le proprie esperienze nei Consigli d’Amministrazione di grandi società elettriche, telefoniche, assicurative, e naturalmente riporta molte vicende legate al gruppo dirigente del San Paolo di Torino e al personale dello stesso, con cenni alla gestione degli scioperi e al conservatorismo dei vecchi dipendenti: sul trattamento di quiescenza «è incredibile il conservatorismo e l’egoismo di chi ha conquistato un posto. Gomitate contro coloro che avanzano e voluta ignoranza di ogni conseguenza economica per l’Istituto», annotava il 3 ottobre 1951, ma riferimento che non ha perso di attualità.
Quello che colpisce è la scelta degli episodi che Coda affida al suo Diario, sicuramente una minoranza rispetto alla totalità degli affari di cui era tenuto al corrente, e i suoi commenti non sono di carattere tecnico bancario, perfino in momenti di svolta come l’istituzione della riserva obbligatoria imposta alle banche nella primavera 1947, in un momento di preoccupante inflazione creditizia. Un fronte di particolare impegno è quello del rapporto con il Direttore Generale Carlo Pajetta e con l’amministrazione del Comune di Torino, in mano ai comunisti. Più volte il governatore della Banca d’Italia Donato Menichella insisterà affinché si nomini un soggetto più idoneo al ruolo. Coda rileva l’esistenza di un filo diretto dell’amministrazione municipale di Torino sia con l’IRI (presieduto dal piemontese Isidoro Bonini, creatura di Frassati dell’Italgas) che con la Democrazia Cristiana, che tende a scavalcare l’autonomia decisionale del San Paolo. Un consigliere democristiano del San Paolo (Pier Carlo Restagno) viene costantemente tenuto sotto controllo. Coda è attento alle pressioni dei magnati torinesi sulle nomine negli organi centrali e locali, sorvegliate e talvolta sventate da Menichella e Einaudi, ed è particolarmente severo nei confronti di aziende dissestate, in ossequio al principio einaudiano: «Le banche devono dare solo a chi può restituire. Se no gli amministratori, cedendo roba d’altri, commettono un furto e devono andare in galera» (4 settembre 1950, p. 275), con riferimento al celebre libro Other People’s Money, and How the Bankers Use It (1914) del giurista Louis Brandeis, che ebbe molto successo in America soprattutto negli anni successivi alla Grande Crisi e che viene ripreso ancor oggi con una certa frequenza. Interessanti sono i vari pareri raccolti da Coda anche presso Stefano Siglienti dell’IMI per valutare la situazione della Nebiolo, o il dissesto della Savigliano. Siamo nel periodo della nascita del FIM (Fondo per l’Industria Meccanica, che tanti fondi pubblici erogò nel tentativo di difendere l’occupazione).
La situazione della casa editrice, Giulio Einaudi resta un problema dalle prime pagine del Diario fino alle ultime: Menichella teme il possibile danno d’immagine che ricadrebbe sul padre se il dissesto diventasse di pubblico dominio. Sorprende un po’ che nel Diario non si citi al riguardo Raffaele Mattioli, che fu il costante sostenitore della casa editrice. Suscita curiosità, infine, una replica alle accuse di don Sturzo circa il «denaro caro» prestato dalle banche, letta al Rotary di Roma e rimasta inedita, testo che forse meriterebbe una pubblicazione.
Su Torino questo Diario si diffonde non poco: l’attenzione mai sopita del Presidente Einaudi per gli istituti culturali della città, la predilezione per le amicizie liberali, e un salace commento sulla scarsa attendibilità della dichiarazione fiscale degli Agnelli nel nuovo regime della riforma Vanoni. Un ruolo centrale occupa sempre il mondo della stampa, dei giornali, che hanno potere di influenzare l’opinione pubblica più delle dichiarazioni di ministri (lo dice lo stesso Coda con riferimento all’attività giornalistica che Einaudi aveva dovuto sospendere per la sua carica di Presidente della Repubblica). Il Diario contiene molti dati (irreperibili altrove) sui contributi di provenienza politica o imprenditoriale ai giornali, sui dissesti nei loro bilanci (interessanti le informazioni circa il «Risorgimento liberale» e il «Mondo» di Pannunzio), sul comportamento dei direttori delle testate di fronte alle pressioni del mondo politico (Massimo Caputo della «Gazzetta del Popolo», un giornale che sopravviveva grazie ai finanziamenti della Sip, è citato una cinquantina di volte). Coda è pronto a riconoscere i torti anche del proprio schieramento, quando il segretario politico Villabruna accetta una sovvenzione di 50 milioni dalla Democrazia Cristiana e la dichiara pubblicamente; il dubbio è che si tratti di fondi «per stabilire una catena di complicità», annotava Coda.
La lettura dei quotidiani e le conversazioni private gli consentono dunque di tenere una sorta di mappa dei compromessi e delle contraddizioni nei comportamenti che viene tramandata al Diario e giunge al lettore odierno. È evidente l’attenzione massima dell’autore per contrastare malversazioni e collusioni, e con l’andare del tempo troviamo una cronaca precisa sulle pressioni dei partiti – e della DC in particolare – per le cariche vacanti; è spesso l’amico della Resistenza Giovanni Battista Boeri a informarlo delle nomine che si profilano all’orizzonte, come nel caso della successione a Stefano Jacini alla Cariplo, scomparso improvvisamente nel 1952: anziché al prestigioso urbanista e Vicepresidente Cesare Chiodi, la Presidenza della Cariplo andrà a un personaggio di nomina politica, che fu, come noto, Giordano Dell’Amore; stupisce un passaparola su tentativi di sostituire il Governatore della Banca d’Italia Menichella con Roberto Bracco del Monte dei Paschi di Siena. Si nota inoltre in Coda un vero e proprio sgomento di fronte ai compensi stratosferici accordati ad alcuni presidenti di nomina politica, di cui veniamo a sapere nomi, date e cifre.
Nelle ultime pagine del libro s’incontrano notizie sulle nomine di direttori di quotidiani indicanti svolte di orientamento politico che segnano l’abbandono del credo liberale: Mario Missiroli al «Corriere» aprirà alla DC, ma – osserva Coda – è amico storico di Pietro Nenni e va subito a trovare Davide Lajolo de «l’Unità». Infine, l’uomo Coda, non sposato, appare un buon viveur: regolare giocatore nei Casinò, appassionato di viaggi nei siti storici e archeologici del Mediterraneo, in Francia e altri Paesi europei, intenditore d’arte e iniziatore delle belle monografie artistiche dell’Istituto bancario San Paolo, che amava consegnare a mano ad alcune personalità. Pur non avendo accettato cariche di partito, abbina sempre i viaggi turistici con visite ai gruppi liberali nelle varie località, di cui rilascia dettagliati resoconti. Un’altra chiave di lettura è infine quella della storia del teatro e dello spettacolo: mese per mese, si spazia dalla lirica al varietà, al cinematografo, soprattutto a Roma, Torino, Milano e Parigi.
Francesca Pino
Francesca Pino, storica e archivista, già direttore dell’Archivio storico di Intesa Sanpaolo