L’Umiltà e le rose

La recensione di Rosanna Roccia per "Studi Piemontesi"

//L’Umiltà e le rose

L’Umiltà e le rose

2018-02-14T10:26:41+00:00 18 gennaio 2018|

L’Umiltà e le rose. Storia di una compagnia femminile a Torino tra età moderna e contemporanea

Primo della nuova serie dei “Quaderni dell’Archivio Storico della Compagnia di San Paolo” affidata dalla Fondazione 1563 alla sobria eleganza dell’editore Olschki di Firenze, questo accurato volume è l’esito di una pluralità di saperi che, sotto l’esperta regia di Anna Cantaluppi e Blythe Alice Raviola, hanno dato vita alla storia inedita della Compagnia dell’Umiltà: sodalizio femminile laico sorto nella capitale sabauda intorno alla seconda metà del XVI secolo a lato della Compagnia di San Paolo e a questa legato da affinità elettive e parentali, sopravvissuto con alterne fortune sino ai primi decenni del Novecento. “Scoperta” grazie al ritrovamento, una decina d’anni or sono, tra le serie dell’Archivio di Stato di Torino, di un antico Libro con fitto elenco di consociate e cariche, e successivamente di ulteriori documenti pregnanti portati alla luce mediante una esplorazione sistematica dei fondi custoditi presso vari istituti conservativi, la «sorellanza» dell’Umiltà posta sotto il regale patronato di santa Elisabetta d’Ungheria è studiata in queste pagine nei suoi multiformi aspetti: prerogative proprie, estrazione sociale e rapporti delle affiliate, obiettivi assistenziali e devozionali, effetti sulla collettività e irradiazioni sul mondo dell’arte.

L’opera, introdotta dalle curatrici che ne spiegano ragioni e contenuti (Il senso di una storia, pp. XI-XXII), è ripartita in quattro sezioni. Nella prima (Il rapporto con la Compagnia di San Paolo, i legami con la corte e i presupposti istituzionali), A. Cantaluppi (Donne e uomini: il legame della Compagnia dell’Umiltà con la Compagnia di San Paolo, pp. 3-27) si sofferma sul confronto tra l’aristocratico sodalizio femminile e l’autorevole consesso maschile sanpaolino, mettendo in luce liaisons familiari e fruttuose collaborazioni in ambito assistenziale-educativo; B.A. Raviola e Pierangelo Gentile (L’Umiltà a corte. Gentildonne, reti familiari e relazioni con Casa Savoia tra Cinquecento e Novecento, pp. 29-68) si concentrano sul rapporto con la corte, fitto agli esordi con l’inclusione di personaggi dalla forte tensione spirituale, turbato più avanti da ingerenze di natura politica, ricuperato nel XVIII secolo attraverso il legame con il ramo Savoia-Carignano, continuato con «indefesso zelo» almeno sino agli anni di Carlo Alberto e proseguito poi in un clima di profondo rinnovamento: che tuttavia segnerà il declino e la fine del sodalizio.

Nella seconda parte (Economia, reti sociali e assistenza fra lasciti, doti e bilanci), Emanuele C. Colombo e Giorgio Uberti (La contabilità spirituale di santa Elisabetta. Per una storia economica della Compagnia dell’Umiltà, pp. 71-112) individuano nella gestione ormai desueta dei lasciti e nella scarsità dei redditi, insufficienti a fronteggiare la povertà della Torino proto-industriale, le cause del tramonto della benemerita congrega. Conferma tale lettura Davide Tabor, che firma con Marcella Maritano e Beatrice Zucca il secondo capitolo della sezione (Assistenza alle donne e reti sociali fra età moderna e contemporanea, pp. 113-163), ove è dedicata particolare attenzione ai contesti sociali delle consorelle, visti anche «in chiave prosopografica», e agli aspetti economici essenzialmente fondati sul binomio lasciti introitati-doti elargite, che infine daranno origine allo «scambio imperfetto», ossia al «disequilibrio tra la funzione primigenia delle Umiliate e i bisogni della città» novecentesca, radicalmente mutata in tutte le sue componenti, istituzionali e sociali.

Carità e devozione furono i pilastri su cui il sodalizio femminile poggiò ab origine le sue fondamenta. La parte terza del volume (Religiosità e devozioni) affronta dunque aspetti rilevanti, non privi di interferenze e contraddizioni, della vita spirituale della congrega, votata al culto di Elisabetta d’Ungheria, «modello di regalità francescana», e tuttavia influenzata dal fervore religioso ispirato a metà Cinquecento dall’«azione borromaica» della vicina Lombardia, dal carisma gesuitico, dalla diffusione delle pratiche mariane. Marzia Giuliani (Le origini devote dell’Umiltà torinese. I gesuiti, la corte sabauda e l’assistenza al femminile, pp. 167-190), rinvenuta la menzione della «matronarum societas humilitatis» tra le pieghe dell’Augusta Taurinorum del Pingone, si sofferma sulle varie associazioni laicali femminili fiorite nel XVI secolo nell’Europa cattolica e riformata e offre in lettura un documento inedito attestante la decisione della duchessa Cristina di traslare nella cappella delle Umiliate ai Santi Martiri una statua della Vergine Immacolata. Paolo Cozzo («Sub invocationis humilitatis». La dimensione devozionale della Compagnia dell’Umiltà (ruoli, pratiche, orientamenti), pp. 191-209) mette in luce il sodalizio creatosi, sotto la reggenza della prima Madama Reale, fra Compagnia di Gesù e Umiliate e, regnante la seconda duchessa, il legame con le visitandine di Jeanne de Chantal, «in una commistione di culti» ove l’omonimia genera confusione tra la madre del Battista e le regine sante di Ungheria e di Portogallo.

Confusione che si riflette nelle raffigurazioni delle Elisabetta salite agli onori degli altari: come si apprende dalla parte quarta dell’opera (Iconografia, arte e letteratura attorno all’Umiltà e a Elisabetta d’Ungheria). In questa sezione è rivelato il significato della seconda parola chiave del titolo del volume e dell’immagine di copertina: le rose sono infatti l’attributo della patrona dell’Umiltà, la regina santa tra le cui mani il pane della carità si trasforma nella “regina” dei fiori. Di tal modello di virtù discorrono Rolando Bellini e Melanie Zefferino (Rose e visioni. L’iconografia di una santa tra Medioevo e Ancien Régime: Elisabetta d’Ungheria, pp. 213-243), passando in rassegna, da Jacopo da Varagine a Sacchetti e Rapous, opere pittoriche dedicate alla regina ungherese e interpretazioni dal suo culto derivate. Di Giuseppina Giamportone (L’altare della Compagnia dell’Umiltà ai Santi Martiri di Torino: storia e arredi, pp. 245-262) è la descrizione accurata della cappella della nobile congrega fronteggiante quella di San Paolo nella chiesa dei Santi Martiri, ove troneggia tutt’oggi la statua dell’Immacolata dello scultore luganese Tommaso Carlone voluta da Cristina: assente ogni riferimento alla santa patrona che invece torna protagonista con l’approccio filologico di Chiara Maria Carpentieri (Letteratura e umiltà femminile: il ritratto di santa Elisabetta d’Ungheria (secoli XIII-XVI), pp. 263-279) ad alcune fonti della Legenda aurea e di altre versioni della medesima, che esaltano e mitizzano le virtù della regina. Tra verità e leggenda il culto di Elisabetta, diffuso in Europa, mette radici in ambito sabaudo, come testimoniano celebri autori, da Giusto Lipsio a Emanuele Tesauro, le cui opere elogiative sono esaminate da Simona Santacroce e Luisella Giachino (La principessa santa, Elisabetta d’Ungheria, pp. 281-315). L’autore dei Panegirici è ancora richiamato da Luca Bianco (Figure dell’Umiltà. Emanuele Tesauro, la Compagnia delle Umiliate e la cultura visiva intorno al 1633, pp. 317-336), che attraverso le dotte pagine programmatiche del letterato piemontese ricerca appunto una «cultura visiva» riferibile alla «regalità che si fa umile» e alla politica che si fa soccorrevole. Stefania Tagliaferri (Cenerentola à rebours. La fortuna ottocentesca di santa Elisabetta d’Ungheria, pp. 337-352) chiude la rassegna degli studi con un saggio che «muove ancora dal principio della sovranità scarnificata e spogliata di ogni suo elemento»: principio caro al Barocco, riaffermato nelle histoires e nelle pitture dell’età romantica, che riportano alla ribalta la figura di Elisabetta, «icona» perfetta della regalità che, obbedendo al precetto evangelico dell’amore, si spoglia delle insegne del potere e si umilia attraverso l’azione caritativa.

Due significativi documenti seicenteschi inediti trascritti in Appendice (pp. 353-362) corredano il volume, che è inoltre arricchito dal superbo inserto iconografico a colori messo a punto da Elisabetta Ballaira. Le quarantotto tavole selezionate dalla studiosa costituiscono una sorta di racconto autonomo e articolato per immagini: narrano della diffusione del culto della santa regina d’Ungheria, mostrano le varie interpretazioni che nel corso dei secoli l’hanno rivestita ora di abiti sontuosi ora di ruvidi panni – ma quasi sempre con attenzione al richiamo simbolico dei pani e delle rose –, parlano attraverso il ritratto delle nobili protagoniste consociate, e, mediante qualche esemplificazione documentale, suggeriscono riflessioni sulla plurisecolare fruttuosa storia dell’Umiltà torinese.

Storia complessa di lungo periodo, nutrita di storie individuali e di richiami forti, di suggestioni letterarie e artistiche, di devozioni e di pietà, che questo volume collettaneo promosso dalla Fondazione 1563, esito di ricerche pluridisciplinari diramate e di un «virtuoso dialogo intergenerazionale» (Rosaria Cigliano, Presentazione, pp. VII-VIII) ha ora portato alla luce. A tale lavoro pionieristico, e alla preziosa banca dati fruibile presso l’Archivio Storico della Compagnia di San Paolo, frutto dell’elaborazione elettronica dei documenti ritrovati e messi a confronto ai fini della costruzione del libro, non mancheranno di far riferimento gli studi futuri sulle istituzioni devozionali e benefiche del Piemonte e dell’Europa, e segnatamente le storie delle Umiltà fiorite a varie latitudini, tutt’oggi poco note o del tutto sconosciute.

Rosanna Roccia

[“Studi Piemontesi”, dicembre 2017, vol. XLVI, fasc. 2]

Rosanna Roccia (Torino, 1942), membro della Deputazione Subalpina di Storia Patria, della Commissione Nazionale per la pubblicazione dei Carteggi del Conte di Cavour, del Comitato scientifico del Centro Studi Piemontesi, è direttore della rivista “Studi Piemontesi” e curatore dell’Epistolario di Urbano Rattazzi.