La riscoperta del Seicento. I libri fondativi

La recensione di Alessandro Angelini per "Studi Piemontesi"

//La riscoperta del Seicento

La riscoperta del Seicento

2018-04-10T11:40:09+00:00 4 aprile 2018|

La riscoperta del Seicento. I libri fondativi

È stata davvero una felice idea quella, maturata nell’ambito della Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo di Torino, di dare alle stampe una nutrita serie di saggi scritti da diversi autori e dedicati rispettivamente ciascuno ad uno dei libri fondamentali che hanno segnato la riscoperta del Seicento nella storiografia artistica del XX secolo. La cura di questo primo volume facente parte di una più ampia collana diretta da Michela di Macco e Giuseppe Dardanello, è stata affidata ad Andrea Bacchi e a Liliana Barroero, che hanno organizzato una perfetta regia su un tema così vasto e che costituisce da sempre terreno fertile e privilegiato delle loro stesse ricerche. In fondo la ‘riscoperta’ e la piena valorizzazione della civiltà figurativa secentesca è fenomeno storiografico relativamente giovane e la considerazione di quel secolo come uno delle epoche davvero auree della storia dell’arte una presa d’atto ancor più recente. Giustamente il titolo del volume indica come oggetto d’interesse il Seicento in senso lato, senza perdersi nel labirinto ambiguo e avvolgente del termine barocco. Quest’ultima infatti è divenuta una definizione sempre più elastica e onnicomprensiva, specie nel mondo degli studi anglosassoni, così da rendersi quasi del tutto fuorviante. Se all’interno di questa categoria critica tradizionale – barocco appunto – possiamo comprendere artisti come Pietro da Cortona, Poussin e perfino Caravaggio e Annibale Carracci, tanto vale abolire del tutto questo termine, che ha finito per perdere qualsiasi pregnanza semantica.

Opportunamente i testi presi in esame hanno inizio con quelli di due padri fondatori della storiografia artistica moderna in lingua tedesca, Heinrich Woelfflin (Renaissance und Barock: eine Untersuchung ueber Wesen und Entstehung des Barockstils in Italien, 1888) e Alois Riegl (Die Entstehung der Barockkunst in Rom, 1908). Con le opere di questi due autori ai quali sono dedicati i saggi di Elisa Coletta e di Arnold Witte, siamo ancora alle ricerche tra Ottocento e Novecento maturate in seno alla Scuola di Vienna, ad una prestigiosa tradizione storiografica alla quale si riallaccia sia pur indirettamente lo stesso Hermann Voss (Die Malerei des Barock in Rom, 1924), sul quale è incentrato il testo di Valeria di Giuseppe di Paolo. Non è un caso, mi sembra, che con questi autori più antichi si siano cimentati studiosi più giovani, freschi dei loro anni di dottorato, che hanno intrapreso le ricerche con il distacco scientifico di chi affronta argomenti di un ormai lontano passato.

La maggior parte degli altri studiosi, spesso più maturi, affronta invece autori che hanno conosciuto personalmente, o alle cui vicende storiografiche comunque restano più direttamente coinvolti. È il caso, ad esempio, di Giovanni Romano, che tratta qui da par suo del saggio magistrale scritto da Giuliano Briganti su Pietro da Cortona o della pittura barocca nel 1962, che deve aver costituito un punto di riferimento anche nei propri studi dedicati al Seicento piemontese e non solo. È anche il caso di Tomaso Montanari, impegnato qui con il celebre Patrons and Painters (1963) di Francis Haskell, uno studioso che imparò a conoscere quando egli era ancora giovanissimo allievo di Paola Barocchi alla Scuola Normale Superiore di Pisa, cogliendo spunti e motivi dal suo magistrale insegnamento sui rapporti fra artisti e committenti in quel secolo cruciale. E anche Lucia Simonato, che svolge qui una densa e serratissima recensione a Roman Baroque Sculpture: an Industry of Art (1989) di Jennifer Montagu, ha certamente subito il fascino di un testo che ha avuto modo di orientare almeno in parte le ricerche di tutti quelli che, nel corso dell’ultimo ventennio, si sono dedicati a questo argomento, che prima era rimasto in buona parte vergine.

I curatori del volume da parte loro si sono assunti due ardui incarichi che hanno portato avanti, a mio parere, con notevole bravura. Andrea Bacchi presenta Studies in Seicento Art and Theory di Denis Mahon comparso nel 1947 ed esamina in modo accurato le molte posizioni critiche che si sono affrontate attorno a questo libro per certi versi esemplare, ma anche molto contestato nel suo assunto di fondo. La discussione riguarda infatti il rapporto tra testi teorici e pratica delle arti nel corso dei Seicento e quindi il saggio così articolato di Bacchi, aldilà dell’occasione specifica, percorre l’intera storiografia del dopoguerra rivolta a questo tema controverso. Il problema è infatti che le teorie accademiche secentesche, a partire da quelle esposte dal suo più alto rappresentante in campo storiografico, Giovan Pietro Bellori, sembrano risultare sempre inadeguate a render conto degli sviluppi più sperimentali e innovativi dell’arte contemporanea: dal naturalismo caravaggesco, al pittoricismo guercinesco, fino alla dimensione tentacolare della produzione berniniana. Essendo Mahon soprattutto un grande studioso di Guercino e in particolare della fase giovanile del pittore di Cento, la più estrosa e innovativa, riflette nei suoi studi questa apparente divergenza, che solo le ricerche di una generazione a noi più vicina è riuscita in parte a riassorbire. Liliana Barroero si confronta invece con Caravaggio di Roberto Longhi nelle edizioni del 1952 e poi del 1968, quindi con il maggiore tra gli storici dell’arte italiani vissuti nel XX secolo, in quello che fu il suo testo monografico forse più maturo, quasi il distillato di più di cinquanta anni di riflessione sui fatti del naturalismo secentesco. Come ricorda la studiosa, Longhi affrontò questo tema fin dagli anni della sua tesi di laurea discussa con Pietro Toesca nel 1911 e per tutta la vita il tema Caravaggio restò il fil rouge che tenne unite le molte stagioni della sua lunga opera storiografica.

Ad uno dei curatori della intera collana dei libri, Michela di Macco, si deve un lucido intervento basato anche su documenti inediti come il carteggio di vari storici dell’arte, dedicato ad uno dei libri più importanti che siano usciti nel dopoguerra sulla fortuna dell’antico e in particolare delle sculture antiche nel Rinascimento e nella prima età moderna: quello di Francis Haskell e di Nicholas Penny dal titolo Taste and the Antique: the Lure of Classical Scultpure, 1500-1990 (1981). Di Macco dimostra, ponendo in serie una dopo l’altra le varie recensioni apparse a suo tempo su questo volume, come la sua comparsa sia stata accolta, oltreché da plauso, anche da molte critiche (indicativa quella severa di Jennifer Montagu) delle quali gli autori fecero tesoro per l’edizione italiana uscita da Einaudi nel 1984. Proprio l’impegno per questa edizione italiana riflette il continuo e proficuo scambio tra i due studiosi inglesi e alcuni dei maggiori storici dell’arte italiani del tempo su questo tema cruciale, che gli autori avevano trattato con una concretezza esemplare e una netta distanza da vaghe astrazioni sul concetto di ‘gusto’, allora ancora presenti nella cultura di matrice idealistica. A proposito di coinvolgimento critico e di discussioni ancora aperte sui grandi temi della storiografia artistica, si può leggere come istruttiva la nota 29 di p. 165 nel saggio che Giovanna Perini Falesani dedica a The Ideal of Painting: Pietro Testa’s Duesseldorf Notebook di Elizabeth Cropper del 1984, dove la studiosa esprime un parere molto severo, finanche ingeneroso, sulle posizioni di Longhi e sulla sua vasta eredità nella critica d’arte in Italia fino ad oggi.

La ricchezza e la varietà di questo volume consiste proprio nella brillante polifonia alla quale hanno collaborato studiosi di diverse nazionalità e scuole, di varie generazioni e sensibilità, che hanno svolto con rigore e passione un compito non facile, destinato a restare di grande utilità per coloro che intraprendono i loro studi in campo storico-artistico.

Alessandro Angelini

[“Studi Piemontesi”, dicembre 2017, vol. XLVI, fasc. 2]

Alessandro Angelini (Siena, 1958), docente di Storia dell’arte moderna presso l’Università degli Studi di Siena, ha pubblicato articoli e saggi e curato cataloghi di mostre e studi monografici; i principali ambiti della sua ricerca spaziano dalla pittura e scultura in Toscana tra i secoli XV e XVI a Gian Lorenzo Bernini e la scultura e le arti figurative in genere nella Roma del Seicento.