Dicono di noi – Fondazione 1563 https://www.fondazione1563.it Wed, 22 Dec 2021 09:46:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.5 Filantropia e Credito https://www.fondazione1563.it/recensione-filantropia-credito-sise/ Fri, 02 Jul 2021 08:47:34 +0000 https://www.fondazione1563.it/?p=19541 Recensione a cura della Società Italiana degli Storici Economici

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Claudio Bermond, Fausto Piola Caselli, Filantropia e credito. Atlante dei documenti contabili dalla Compagnia di San Paolo all’Istituto bancario San Paolo di Torino (secoli XVI–XX), Leo S. Olschki, Firenze 2020, pp. XXI-280

da Newsletter SISE, n. 78, marzo 2021

La Compagnia di San Paolo nacque nel 1563 a Torino, appena eletta da Emanuele Filiberto capitale del suo Ducato, come confraternita laica di ispirazione religiosa, su iniziati va di sette fedeli che erano spinti da un sincero anelito spirituale, ma anche dal desiderio di tradurlo in concrete opere caritative. Queste vennero via via realizzate con la tutela dei poveri vergognosi, delle giovani bisognose, di chi necessitava di piccole somme di denaro per affrontare le incombenze della vita, in una prospettiva di difesa del cattolicesimo tridentino dalla penetrazione del protestantesimo. Il numero dei confratelli crebbe nel tempo e l’istituzione si rafforzò, ricevendo in dono ed amministrando accuratamente numerose eredità provenienti dalla migliore aristocrazia piemontese. Le opere di carità si irrobustirono e, tra queste, assunse un certo rilievo il Monte di pietà gratuito. La Compagnia svolse in età moderna un ruolo rilevante anche a sostegno delle finanze pubbliche, sia dello stato sia della città di Torino.

A metà Ottocento, con l’avvento del liberalismo e della libertà di culto, la Compagnia fu statalizzata e perse quell’importante ruolo caritativo e finanziario che aveva svolto nei secoli precedenti. Il suo nuovo gruppo dirigente, tutto di nomina pubblica, disegnò un nuovo compito per l’istituzione, puntando sull’esercizio di una moderna e rigorosa attività bancaria fondata sul Monte di pietà e sul Credito fondiario. Il Monte, che dal 1805 aveva assunto una fisionomia di ente di depositi e prestiti sul modello del Mont-de-Piété parigino, ampliò sempre più queste nuove funzioni bancarie, assumendo le caratteristiche di una vera e propria cassa di risparmio. Il riconoscimento ufficiale di questo suo nuovo profilo avvenne solo nel 1932, quando il governo la elesse a “istituto di credito di diritto pubblico”, permettendole di assumere la nuova denominazione di Istituto di San Paolo di Torino. Credito e beneficenza, a significare che l’attività bancaria era diventata più importante di quella filantropica.

Da quel momento, l’Istituto crebbe sempre più con una spiccata vocazione creditizia, per giungere all’anno 1992 quando, in applicazione della legge Amato-Carli, fu scorporato in fondazione bancaria, che assunse l’antico nome di Compagnia di San Paolo, e in banca vera e propria, che mantenne il nome precedente di Istituto Bancario San Paolo di Torino s.p.a. Quest’ultimo, dopo aver assorbito tra il 1995 e il 2001 alcune importanti banche (Banca nazionale delle Comunicazioni, Banco di Napoli, Cardine, Carifirenze) e attuato un processo di fusione con Imi, il primo gennaio 2007 si fuse nuovamente con Banca Intesa, dando origine al gruppo creditizio Intesa San Paolo s.p.a., ad oggi il maggiore del paese.

Il volume Filantropia e credito è stato redatto selezionando dapprima 103 documenti significativi dal punto di vista contabile ed economico ospitati nell’Archivio storico della Compagnia di San Paolo di Torino, procedendo poi alla loro descrizione analitica in un’ottica archivistica ed amministrativa, per pervenire infine ad una rivisitazione della storia istituzionale dell’ente torinese fondata in gran parte sui suoi sistemi contabili e finanziari che, nel corso del tempo, hanno permesso alla Compagnia di tenere sotto controllo i propri conti e di darne un’opportuna comunicazione alla società civile in attuazione delle leggi via via vigenti.

Nei secoli XVI e XVII, le entrate e le uscite della Compagnia erano presentate ai confratelli in modo episodico, senza darne conto al mondo esterno. Solo con gli inizi del Settecento l’istituzione si dotò di un sistema contabile a partita semplice, che permetteva al tesoriere di predisporre a fine anno un prospetto delle entrate e delle uscite di cassa complessive, chiamato il Conto reso dal Tesoriere. Con il passare degli anni e con l’aumento del numero delle eredità e dei lasciti conferiti alla Compagnia, tra cui alcuni di grande rilievo, come le eredità Scarnafigi e Cavour, costituite da immobili, censi e luoghi di monte, si pose il problema di seguire con cura gli andamenti degli elementi patrimoniali. Così, a partire dal 1727, fu redatto lo Stato dei redditi di ciascuna delle opere, che forniva a livello preventivo tutte le informazioni sui cespiti posseduti, sulla loro gestione nel corso dell’anno a venire e sulle rendite da essi generati. Qualche anno più tardi, fu istituito il conto della Cassa dei capitali per registrare i proventi derivanti dalla vendita di cespiti che erano stati smobilizzati e che erano in attesa di un nuovo investimento più redditizio del precedente.

In età moderna, il patrimonio della Compagnia non cresceva per effetto degli utili prodotti e accumulati, ma per l’incremento nel tempo delle eredità e lasciti acquisiti, frutto della generosità dei benefattori. Gli utili eventualmente realizzati venivano destinati alla beneficenza nell’anno di formazione. La contabilità era tenuta tutta a partita semplice, ad eccezione forse dei movimenti di cassa relativi alla gestione dei prestiti pignoratizi effettuati dal Monte di pietà gratuito e dei relativi incassi, che erano registrati in partita doppia sui libri mastri, che purtroppo non ci sono pervenuti.

Un momento rilevante di rottura nella tenuta della contabilità si ebbe con l’apertura nel capoluogo piemontese, da parte dei francesi, del Monte di pietà ad interessi, modellato su quello parigino. In ossequio alle disposizioni del Code de Commerce, si introdussero alcuni libri obbligatori, quali il Libro giornale, il Libro degli inventari e la Raccolta ordinata delle lettere commerciali, proseguendo inoltre nell’utilizzo del Libro mastro. Il giornale e il mastro erano tenuti a partita doppia, applicando quindi pienamente questo metodo contabile nella gestione del Monte. Questi assunse i caratteri di una banca capitalistica, ricevendo depositi ed erogando prestiti contro interessi e accumulando in parte gli utili di esercizio realizzati, al fine di costituirsi un patrimonio proprio destinato alla copertura delle perdite e allo sviluppo aziendale.

Questa impostazione di natura liberista avrebbe contagiato – passati gli anni della Restaurazione e del Risorgimento – tutto l’impianto contabile della Compagnia, che dal 1873 adottò in modo generalizzato il metodo della partita doppia, per far dialogare a pieno titolo tutte le sue opere.

Dopo la statalizzazione dell’istituzione torinese, avvenuta nel 1853 per iniziativa del primo governo Cavour, il Monte di pietà e, dal 1866, il Credito fondiario puntarono ad aumentare il processo di accumulazione, pur continuando ad operare secondo criteri rigidamente prudenziali.

In seguito alla sempre più accentuata specializzazione bancaria, il Monte fu riconosciuto nel 1925 di prima categoria e, nel 1932, il San Paolo fu trasformato in istituto di credito di diritto pubblico. L’ingresso nel nuovo ambito comportò per l’istituto torinese, pur trattandosi di un ente pubblico, l’adesione alla normativa giuridica, amministrativa e contabile prescritta per le società anonime dal Codice di Commercio del 1882 e ribadita dalla legge bancaria del 1926. Per quanto riguardava le opere caritative, che erano state accorpate in due soli enti, l’Ufficio pio e l’Educatorio Duchessa Isabella, si adeguarono via via alle normative che vennero emanate in tema di opere pie, continuando a redigere annualmente un bilancio preventivo e uno consuntivo e compilando un registro degli inventari dei beni patrimoniali, passando da una mera contabilità di cassa ad una più complessa legata al rilievo dei componenti positivi e negativi di reddito (CB, FPC).

[“SISE Newsletter”, 78, marzo 2021]

La Società Italiana degli Storici Economici (SISE) si è costituita nel 1984 con lo scopo di stabilire un luogo istituzionale nel quale la comunità degli storici italiani dell’economia potesse ritrovarsi e discutere temi e problemi della disciplina oltre che partecipare, come comunità italiana, alla rete delle diverse organizzazioni nazionali da più tempo costituite. La Società pubblica una Newsletter quadrimestrale.

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L’Archivio Storico visto da… https://www.fondazione1563.it/recensione-archivio-storico-ciapapuer-andrea-parodi/ Mon, 03 May 2021 10:42:37 +0000 http://www.fondazione1563.it/?p=19267 Recensione a cura di Andrea Parodi su "Ciapapuer"

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I tesori nascosti di piazza Bernini

di Andrea Parodi

La ricchezza del patrimonio documentale, storico-artistico dell’Archivio Storico della Compagnia di San Paolo attraverso lo sguardo del giornalista torinese Andrea Parodi. La sua visita alla sede della Fondazione 1563, online sul canale YouTube “Ciapapuer”, regala agli spettatori un percorso sulle origini della Compagnia di San Paolo e sull’Educatorio Duchessa Isabella, alla scoperta degli spazi che oggi ospitano la biblioteca dell’archivio e il seminterrato con i tesori dell’archivio storico.

I tesori nascosti di piazza Bernini
#Tesoro #CompagniadiSanPaolo #Fondazione1563

Ciapapuer di Andrea ParodiAndrea Parodi (Torino, 1978) è giornalista della Stampa. Vincitore del premio “Paladino delle Memorie” 2017, attraverso il canale YouTube “Ciapapuer” sottrae all’oblio storie di donne e uomini e memorie di eventi e luoghi, raccontandole con leggerezza e ironia perché, afferma, “la cultura non è noiosa, né polverosa”.

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Fortuna del Barocco in Italia https://www.fondazione1563.it/fortuna-barocco-italia-recensione-de-lucia/ Tue, 16 Mar 2021 14:32:48 +0000 http://www.fondazione1563.it/?p=19006 Recensione a cura di Giulia De Lucia

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Fortuna del Barocco in Italia. Le grandi mostre del Novecento

Il volume [Fortuna del Barocco in Italia. Le grandi mostre del Novecento, a cura di M. di Macco G. Dardanello, Quaderni sull’Età e la Cultura del Barocco. Quaderni delle borse di alti studi e dei premi, Casa Editrice Leo S. Olschki, Firenze 2019] rappresenta il secondo esito pubblicato del programma di studi sull’età e la cultura del Barocco, promosso della Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura, ente strumentale della Compagnia di San Paolo, impegnato a dare continuità alla riflessione critica e storiografica sul barocco, inteso come stagione culturale internazionale. Questa linea di ricerca è motivata dal fatto che la cultura barocca è lo scenario in cui sono maturate le scelte storiche fondative e le prime attività della Compagnia, che ha quindi sviluppato nel tempo uno sforzo costante di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale riferibile a tale stagione artistica, in relazione anche al forte impatto architettonico e territoriale che ha assunto nell’area piemontese e ligure, in cui la Fondazione opera.

Il libro raccoglie gli atti del convegno del 2016 (Fortuna del Barocco in Italia. Le grandi mostre del Novecento, Torino 28-29 novembre 2016), che offrono una lettura storico-critica delle mostre dedicate alla cultura artistica del Seicento e del primo Settecento tenutesi in Italia nel secolo scorso. La struttura del testo, organizzata per temi, affronta le grandi esposizioni d’arte (capitolo primo: Le mostre piemontesi), architettura (capitolo secondo: Le mostre di architettura) e scultura (capitolo terzo: Le mostre di scultura), illustrate con efficacia dagli autori dei saggi, di cui una parte fu coinvolta in prima persona nelle attività di studio e preparazione di alcune delle mostre citate. La pubblicazione di questo volume – insieme con la Summer School Ripensare il Barocco (sec. XVII-XVIII). Nuove prospettive storico-critiche – è inoltre da contestualizzare nel clima di ricerca e riflessione storiografica che ha accompagnato la preparazione della mostra Sfida al Barocco. Roma Torino Parigi 1680–1750, promossa dalla Fondazione nelle sale espositive della Reggia di Venaria nel 2020 (30 maggio-20 settembre), curata da Michela di Macco e Giuseppe Dardanello.

Il volume si rivolge sia al contesto locale, sottolineando l’impegno della comunità scientifica torinese nella valorizzazione del patrimonio piemontese del Sei-Settecento, sia alla scala nazionale e internazionale, inquadrando nel tempo e nello sviluppo critico e storiografico le esposizioni prese in esame. La memoria delle mostre è recuperata attraverso uno sforzo di ricerca che va oltre lo studio dei cataloghi – qualora presenti – ma si concentra su una visione panottica dell’evento, del suo processo creativo, degli studi, delle scelte espositive e della progettazione degli allestimenti. Se ne deducono soprattutto la risposta pubblica, le recensioni, l’affluenza e la risonanza delle mostre, raccontandone la rilevanza culturale e mediatica e l’influenza nell’orientare gli indirizzi di ricerca accademica che ne sono seguiti.

In particolare, emerge la questione della definizione e periodizzazione del Barocco, nodo storiografico ancora oggi centrale. Le mostre più significative, fino ai primi anni del secondo dopoguerra, si approcciavano al tema con selezioni artistiche ampie e tale modalità fu confermata anche nel contesto piemontese: la prima mostra del 1937 – Mostra del Barocco piemontese – rappresenta infatti la necessità di affermare il prestigio di tutte le arti che fra Seicento e Settecento, nel territorio regionale, erano caratterizzate da un’indiscutibile unità culturale e spirituale. Lo stesso titolo venne nuovamente utilizzato nell’esposizione Il Barocco piemontese del 1963, diretta conseguenza della precedente, che cercava ancora di “restituire al Piemonte il riconoscimento del posto che gli era stato negato nella storia dell’arte in ragione di una non adeguata conoscenza della regione” (Dardanello, p. 35). Un valore che era già stato riconosciuto a livello internazionale con la pubblicazione di ricerche che ne sancivano il valore europeo, soprattutto in merito alla produzione architettonica, come il Theatrum Novum Pedemontii, di Albert Brinckmann del 1931, che Vittorio Viale trasformò in un percorso espositivo con la mostra del 1963, o lo scritto fondamentale di Rudolf Wittkower Arte e Architettura in Italia. 1600-1750 del 1958, omaggiato dalla grande opera di ricerca di Nino Carboneri, impegnato nella sezione sull’architettura.

Il merito del volume è soprattutto quello di riuscire a mettere in luce i punti di svolta, gli sviluppi critici che determinarono cambi di rotta. Tra questi, la pubblicazione del volume di Giuliano Briganti su Pietro da Cortona (Pietro da Cortona o della pittura barocca) nel 1962, che raffredda gli animi discutendo sulla legittimità di utilizzare con disinvoltura il termine barocco per tutta la produzione artistica che esulava dal contesto romano della prima metà del Seicento, e tutto il dibattito critico che ne seguì (Romano, pp. 69-75).

E in effetti, per le mostre della seconda metà del secolo, si assiste a un uso sempre più cauto del termine, sempre più circoscritto, con esposizioni che via via abbandonano le grandi tematiche generali, e quella “giungla inestricabile” (di Macco di p. 278) di contenuti, per assottigliarsi su cronologie specifiche, autori o territori (Pittori genovesi a Genova nel ‘600 e nel ‘700, Genova, 1969; Il Seicento lombardo, Milano 1973; Bernini in Vaticano, Roma, 1981). In area piemontese sarà la mostra del 1989 Diana Trionfatrice. Arte di corte del Piemonte del Seicento, a dimostrare l’ormai avvenuto superamento dell’uso del termine e a inaugurare ufficialmente una nuova stagione di ricerche, sviluppatesi in quegli anni attraverso studi territoriali. L’iniziativa, infatti, si configura come una vera e propria operazione storiografica che circoscrive all’arte di corte i contenuti trattati. In questo modo orienterà, secondo linee scientificamente solide, i successivi indirizzi di ricerca intrapresi dagli atenei piemontesi, attraverso l’ambizioso programma di rilancio delle residenze sabaude, iscritte nel 1997 nella lista del patrimonio UNESCO.

All’interno di una trattazione incentrata sulle esposizioni, le residenze sabaude introducono un altro tema rilevante, ovvero la categoria peculiare delle mostre d’architettura. Esporre le opere architettoniche è sempre un’operazione complessa poiché al visitatore è negata la possibilità di fare esperienza dello spazio. La fortuna delle mostre torinesi fu proprio l’opportunità di poter utilizzare alcune fra le più importanti residenze sabaude come “oggetto esposto” e contemporaneamente contenitore delle esposizioni. Seppur non sempre filologicamente precisa, la scelta delle sedi e degli allestimenti creò percorsi di visita dal carattere fortemente immersivo e per questo di grande presa sul vasto pubblico. Già la mostra del 1937 era stata incardinata principalmente a palazzo Carignano (i documenti d’archivio e le lastre fotografiche su vetro della mostra sono stati recentemente digitalizzati dalla Fondazione 1563 nell’ambito del Programma di Studi sull’Età e la Cultura del Barocco, consultabili al sito web http://mostrabarocco1937.fondazione1563.it), ma includeva anche palazzo Madama e la palazzina di caccia di Stupinigi. Queste ultime sedi furono confermate per la mostra del 1963, ma la grande novità in questo caso fu rappresentata dall’utilizzo di Palazzo Reale, aperto al pubblico nel 1961,come sede centrale dell’iniziativa. L’importanza della possibilità di usufruire ditali residenze per le esposizioni fu tale che venne dedicato un testo specifico, affidato al critico Marziano Bernardi (Le sedi, 1963).

Sul finire del secolo si assiste a una progressiva riabilitazione del modello d’architettura come documento storico e come oggetto di grande comunicazione con il pubblico. Tra le mostre d’architettura più significative, e che fecero dell’esposizione dei modelli un punto di forza, si ricordano In Urbe Architectus, Roma 1991, che esponeva i modelli storici ancora esistenti a Roma, e le due importanti mostre curate da Henry Millon: Rinascimento. Da Brunelleschi a Michelangelo. La rappresentazione dell’architettura, allestita a palazzo Grassi a Venezia nel 1994 (il cui pezzo forte fu il modello ligneo di Antonio da Sangallo il giovane per San Pietro) e I trionfi del Barocco. Architettura in Europa 1600- 1750, organizzata nella palazzina di caccia di Stupinigi nel 1999, che esponeva modelli provenienti da tutta Europa. Nello stesso anno fu infine allestita la mostra luganese sul giovane Borromini (Il giovane Borromini. Dagli esordi a San Carlo alle Quattro Fontane, Lugano, 1999), in cui l’architetto Mario Botta progettò un modello a grandezza naturale che riproduceva una metà sezionata della chiesa di San Carlino, fissata su una piattaforma sul lago.

Chiude il volume una rassegna geografica delle principali mostre d’arte in Italia dedicate alla stagione barocca (capitolo quarto: Le mostre in Italia), in cui convivevano il desiderio corale di esaltare un’identità artistica nazionale, ma anche quello di sottolineare le specificità delle arti regionali. Sottotraccia, nei diversi saggi, è la figura di Roberto Longhi, che ha avuto un ruolo da protagonista quando personalmente coinvolto nelle attività espositive, ma anche quando la sua presenza era stata meno esplicitamente palese, poiché consistente fu l’influenza delle sue capacità critiche sugli sviluppi della valorizzazione dell’arte barocca.

In conclusione, il libro consente al lettore di ripercorrere gli intrecci che collegano i principali eventi espositivi italiani sul tema, e di immedesimarsi nei percorsi di visita e soprattutto nei rispettivi contesti, anche grazie a un vasto apparato di immagini, riuscendo a porne in luce le svolte decisive e fornendo chiavi di lettura utili per una comprensione critica delle mostre contemporanee volte alla valorizzazione di una temperie culturale, a volte sfuggente, come il Barocco.

Giulia De Lucia
in
Studi e ricerche di storia dell’architettura,
Edizioni Caracol
, 8/2020

Giulia De Lucia

Giulia De Lucia, architetto, dottore di ricerca in Beni architettonici e paesaggistici (XXX ciclo) con una tesi sul rinforzo strutturale della cupola del santuario di Vicoforte (Cuneo), è assegnista di ricerca post-doc presso il responsible risk resilience Centre del Politecnico di Torino (r3C), dove approfondisce il tema della conoscenza storica per le questioni di rischio e tutela dei beni culturali di interesse religioso.

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“Dalle carte le vite”, metamorfosi di amore https://www.fondazione1563.it/dalle-carte-le-vite-metamorfosi-di-amore-fondazione-1563/ Wed, 13 Nov 2019 09:47:02 +0000 http://www.fondazione1563.it/?p=17609 Un articolo di David Sorani

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“Dalle carte le vite”, metamorfosi di amore

Studiare attentamente i documenti che attestano sequestri e confische dei beni degli ebrei italiani (beni gestiti dall’EGELI, amministrati in Piemonte dall’Istituto Bancario San Paolo e così confluiti nel suo Archivio Storico), ricostruire col loro aiuto le biografie, le parentele, i contesti familiari e sociali, gli ambienti di vita e le aspirazioni dolorosamente frustrate; andare insomma oltre la doverosa testimonianza storica della persecuzione architettata e realizzata dal fascismo, confermare ma superare la denuncia civile implicita nella semplice esposizione dei provvedimenti razzisti attraverso l’empatia generata dalla conoscenza delle vittime, delle loro vicende. Questo è il percorso progettato e realizzato dalla Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo insieme ad alcune classi e a insegnanti di varie scuole torinesi. Un progetto di vita contro la morte, di riscatto contro l’abiezione, di dignità contro l’emarginazione e la vergogna costruite dall’antisemitismo fascista. Il miglior modo possibile di fare memoria, potremmo dire, capace di guidare i giovani a prendere coscienza – attraverso un itinerario di studio storico – della lacerante realtà delle leggi razziste e dei loro pesanti, ramificati effetti sulla popolazione ebraica italiana; ma anche della variegata realtà dell’ebraismo italiano, della sua vitalità, della sua attiva partecipazione alla società italiana degli anni Trenta.

Se ne è parlato a fondo il 5 novembre scorso a Torino, presso l’Archivio Storico della Compagnia, durante una intensa mattinata di presentazioni e approfondimenti realizzata a cura della sua agguerrita équipe di ricercatori/formatori. A monte di un percorso didattico composito e ricco di implicazioni formative (fra l’altro l’analisi dei documenti e il loro impiego nella ricerca storica, la ricostruzione di storie familiari all’interno della Storia politica e sociale del regime, l’impiego delle moderne tecnologie informatiche nello studio delle fonti e nella loro archiviazione), sta innanzitutto la mostra Le case e le cose realizzata lo scorso anno dall’Archivio nel quadro delle varie iniziative cittadine nell’80° delle leggi razziali, che già aveva intrapreso la strada della ricomposizione dei frammenti documentari nel quadro unitario delle biografie individuali e familiari. Ancora alle spalle, il fondamentale volume dallo stesso titolo curato da Fabio Levi (Le case e le cose. La persecuzione degli ebrei torinesi nelle carte dell’EGELI 1938-1945, Zamorani, Torino 1998) che raccoglieva anche scritti di D. Adorni e di G. Genovese e che aveva iniziato l’esplorazione di quelle carte col duplice fine della documentazione storica d’assieme e della raccolta di informazioni in vista della restituzione dei beni.

Grande merito di un progetto scolastico che per primo ha messo al centro dei suoi interessi le vicende individuali e familiari dei perseguitati è ora quello di aver raccolto e organizzato sistematicamente tante storie diverse in unico grande repertorio, un portale web di rara suggestione che permette a tutti i visitatori, grazie ai documenti e alle numerose fotografie tratte dagli album di famiglia, di entrare in sintonia con i protagonisti, di ricostruire ambienti e situazioni della loro vita, di cogliere il valore materiale e talvolta anche solo affettivo degli oggetti impietosamente sottratti ai legittimi proprietari, di sondare visivamente la lacerazione prodotta a vari livelli dalle leggi razziali.

Tra le varie vicende che compongono questo quadro, l’incontro all’Archivio della Fondazione 1563 ha fatto emergere quella per molti aspetti unica (anche se ogni storia è in fondo “unica”) dell’avv. Remo Jona, narrata con discrezione e lucidità storica dagli ex-allievi dell’Istituto Russell-Moro-Guarini che con la guida della professoressa Antonella Filippi l’hanno sapientemente ricostruita anche attraverso documenti rari, provenienti dall’Archivio di Auschwitz e dalle carte familiari di Primo Levi. È la sconvolgente storia di un uomo benestante depredato di tutti i suoi possedimenti, deportato con moglie e figli da Issime in Val d’Aosta, compagno di prigionia di Primo Levi ad Auschwitz III-Monowitz, unico superstite della sua famiglia; un uomo segnato da un dolore incancellabile, che al suo ritorno ha lottato per avere un parziale risarcimento, trovando la morte in un incidente stradale, investito da una motocicletta a Lanzo Torinese nel 1954.

In tempi amari come quelli che stiamo vivendo, quando pensieri parole atti di antisemitismo si moltiplicano in un crescendo allarmante e sono accompagnati da rivendicazioni violente e orgogliose (l’orgoglio dell’inciviltà), iniziative come quella della Fondazione 1563 – volte all’approfondimento della documentazione e insieme allo sviluppo della didattica della Storia e della formazione civile – sono come una boccata di ossigeno, un segno di intelligenza che può far sperare in una possibile inversione di tendenza, o almeno in una interruzione del piano inclinato sul quale siamo da qualche tempo avviati.

in moked/מוקד il portale dell’ebraismo italiano, 12 novembre 2019

David Sorani (Firenze, 1955) è stato insegnante presso la Scuola Media Ebraica “Emanuele Artom”  e poi docente di storia e filosofia al Liceo Classico “Cavour” di Torino. Collaboratore di quotidiani e riviste, è stato direttore del periodico Ha Keillah. Dal 2011 è consigliere alla cultura della Comunità Ebraica di Torino.

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Fortuna del Barocco in Italia https://www.fondazione1563.it/recensione-fortuna-barocco-italia-manifesto/ Thu, 26 Sep 2019 12:58:34 +0000 http://www.fondazione1563.it/?p=17515 Recensione a cura di Gennaro De Luca su "il Manifesto"

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Caravaggio 1951, coscienza condivisa

“Caravaggio 1951” di Patrizio Aiello, Officina Libraria, da leggere insieme a “Fortuna del Barocco in Italia. Le grandi mostre del Novecento”, a cura di Michela di Macco e Giuseppe Dardanello, Sagep Editori. L’autore ci introduce nella mostra-spartiacque sul Merisi e la sua cerchia che Roberto Longhi organizzò a Milano, Palazzo Reale: attraverso foto e fonti coeve, restituisce concretezza storica a un evento mitizzato

Le mostre hanno un potenziale altissimo. Assumendo sembianza fisica nelle scelte di allestimento e nel confronto stringente tra le opere, le idee del curatore vi trovano un fantastico trampolino di lancio per passare al vaglio del pubblico ed entrare in un circuito più vasto. Dal canto suo, il visitatore vede aprirsi davanti a sé un campo privilegiato. Ha a portata di mano, simultaneamente, l’intera produzione di un artista o di una stagione culturale e può maturare con essa una familiarità che nemmeno quel maestro o quell’epoca poterono avere (questa riflessione è di Francis Haskell). Da qui alla creazione di una coscienza condivisa dell’esistenza e del valore del nostro patrimonio storico-artistico il passo è breve.

Oltre che terreno fertile di sperimentazione per la storia dell’arte, da qualche anno le mostre sono diventate esse stesse oggetto di interesse scientifico. In un tempo come il nostro, in cui eventi del genere si sono affermati come il luogo principe dell’incontro tra l’arte e il suo pubblico e per contro si assiste al dilagare di manifestazioni culturalmente irrilevanti, per non dire regressive, lo sguardo retrospettivo alle esposizioni passate, lungi dall’essere un’operazione nostalgica, può costituire una grandiosa sfida al presente.

Questo stimolo si ricava nel leggere due libri di recente pubblicazione: Caravaggio 1951 di Patrizio Aiello (Officina Libraria, pp. 224, euro 20,00) e Fortuna del Barocco in Italia Le grandi mostre del Novecento, a cura di Michela di Macco e Giuseppe Dardanello (Sagep Editori, pp. 352, euro 35,00). Pur nella differenza d’orizzonte, i volumi disegnano una stessa traiettoria e dimostrano che certe mostre hanno ancora molto da dire all’attualità.

Come lascia intuire il titolo, Caravaggio 1951 approfondisce la Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi, l’evento che si tenne tra le sale del Palazzo Reale di Milano nella primavera del 1951, a cura di Roberto Longhi. Il campo, per quella che in premessa Giovanni Agosti valuta giustamente come «la più importante mostra caravaggesca mai tenuta», era stato preparato da decenni di aperture, intuizioni, dibattiti e polemiche; quarant’anni (a partire dalla tesi di laurea discussa nel 1911) in cui lo studioso aveva esplorato il pianeta della pittura naturalista di primo Seicento con precisione sempre vigile.

Tutt’altro che un mero assolo di quadri del Caravaggio, il piano curatoriale raccontava Michelangelo Merisi ad ampio raggio, censendone ascendenti e discendenti. L’intenzione era evidentemente quella di arricchire l’immagine del pittore, mettendo a fuoco i termini del rapporto instaurato col contesto circostante. Il tutto inteso come una proiezione su un piano spaziale delle sorprendenti ispirazioni con cui Roberto Longhi aveva trasferito le origini stilistiche del pittore da Venezia alla provincia lombarda. L’allestimento rafforzava, poi, il senso della ramificazione del verbo caravaggesco e puntava su una scansione generazionale della cerchia di pittori che, con varie motivazioni, trovarono in quell’espressione la propria via per affrontare il mondo.

Di indiscutibile qualità scientifica e forza innovativa, la mostra guidava la sensibilità collettiva verso un nuovo ancoraggio, che poneva Michelangelo Merisi ai vertici della creatività del suo tempo. In un colpo solo, quell’evento faceva da spartiacque e insieme da cerniera circa il modo di percepire la pittura del Caravaggio. Nelle parole dei recensori possiamo appena immaginare il sorgere di una crescita reputazionale che non si è più arrestata.
Patrizio Aiello è consapevole di maneggiare una mostra circondata dall’aura del mito, ma priva di adeguati apparati documentari. Persino il catalogo, lo strumento deputato a lasciare la testimonianza più completa della riscossa milanese del Caravaggio, ne restituisce un’immagine deviante (ad esempio, disperdendo la sistemazione ragionata dei pittori influenzati dal Merisi in un asettico ordine alfabetico). Reclama, perciò, all’occorrenza per fotografie e resoconti giornalistici lo status di fonti documentarie. Improntato a una volontà tenacemente ordinatrice, lo studio guida il lettore e si sofferma parete per parete a descrivere la consistenza e le ragioni del montaggio. Laddove la ricerca ha fruttato poco, l’autore ipotizza argomentando. Tra le righe affiora nitidamente il profilo di un’esposizione dai contorni meno mitici, ma certo più aderenti al vero.

Lo scarto tra l’evento e le sue testimonianze è oggetto di riflessione e si misura in maniera tangibile anche nella Fortuna del Barocco in Italia, antologia di un convegno che si è tenuto a Torino nel dicembre 2016. La connessione con il capitolo editoriale precedente, ovvero La riscoperta del Seicento. I libri fondativi del 2017, è evidente. Il primo libro raccontava la storia di una faticosa decontaminazione, identificando in sedici saggi le tappe critiche fondamentali per la rivalutazione della cultura figurativa barocca. In continuità con quello spirito, la nuova raccolta allarga l’orizzonte e mette a punto un’avvincente incursione nella vicenda novecentesca delle mostre dedicate alla civiltà italiana del XVII e del XVIII secolo.

Le mostre seguono a distanza, e con una certa lentezza, la rinascita del Seicento maturata negli studi a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento, allargando quanto più possibile il confine della sua diffusione e finendo col diventare di per sé motore di rinnovamento critico. Archiviate le rassegne nel solco del nazionalismo postunitario – come quella sul Ritratto italiano del 1911, in cui la delegazione di effigi seicentesche era stata attrice non protagonista, e l’altra della Pittura italiana del Seicento e del Settecento del 1922 –, nel dopoguerra vedono la luce rassegne che si muovono su uno stesso registro metodologico e d’intenti. Gli ingredienti sono più o meno gli stessi: un sicuro controllo sui documenti figurativi, frequente ricorso a procedimenti comparativi, la prevalenza del principio del contesto di riferimento (quindi, una forte saldatura tra la storia dell’arte e la pratica della tutela). Il programma elaborato per le Biennali d’arte antica da Cesare Gnudi, Soprintendente a Bologna dal 1952, rappresenta in pieno questo spirito eroico e pioneristico. La scommessa di assegnare l’avvio dell’iniziativa a Guido Reni (1954), «il più impopolare dei pittori» come lo definì Benedict Nicholson, dice molto dell’ambizione di restituire credito a una pittura che pareva tramontata nel giudizio diffuso. Da qui in avanti un compiuto capitolo della storia dell’arte italiana d’età barocca – fatto di artisti, opere e nessi – avrebbe preso forma.

La schedatura si muove nella direzione di un racconto territoriale che, pur perdendo quel carattere di linearità proprio dell’altro volume, asseconda meglio la natura frammentaria del panorama espositivo nostrano. Attraverso i numerosi contributi (lo scenario di Roma nelle parole di Evelina Borea, quello di Torino campionato da Giovanni Romano e Chiara Gauna, la situazione di Napoli descritta da Andrea Zezza, quella di Firenze ricomposta da Claudio Pizzorusso e di Milano e Genova omaggiata da Francesco Frangi e Alessandro Morandotti), il volume disegna così una storia d’Italia attraverso le mostre dedicate al Barocco; una trama parallela a quella del nostro paese, dove il modo di concepire le mostre riflette strettamente la considerazione riservata all’arte stessa.

Gennaro De Luca
[“Alias. il Manifesto”, 15 settembre 2019]

Gennaro De Luca (Sapri, 1988), storico dell’arte, giornalista, collabora con il Manifesto per il quale scrive recensioni a libri e mostre per l’allegato domenicale Alias.

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Un malinconico leggero pessimismo https://www.fondazione1563.it/recensione-un-malinconico-leggero-pessimismo/ Tue, 16 Apr 2019 16:30:42 +0000 http://www.fondazione1563.it/?p=16583 Recensione a cura di Francesca Pino

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Anton Dante Coda, Un malinconico leggero pessimismo. Diario di politica e
di banca (1946-1952), a cura e con introduzione di Gerardo Nicolosi

È una generosa operazione culturale quella che la Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura ha realizzato in collaborazione con Gerardo Nicolosi, storico del liberalismo italiano. Lo spunto progettuale di questo volume è nato in condivisione con una proposta di ricerca comparata dell’Archivio Storico di Intesa Sanpaolo: studiare i Presidenti della Liberazione, eletti nelle maggiori banche italiane all’indomani della Resistenza. L’ABI, Associazione Bancaria Italiana, ha raccolto i profili delle figure apicali emerse dopo la Liberazione nella pubblicazione Banche e banchieri per la ricostruzione, uscita nel 2015.

Ogni diario del periodo della grande transizione porge una testimonianza insostituibile e unica, ma la possibilità di porre a confronto diversi diari coevi – come quelli di Alfredo Pizzoni, Tommaso Gallarati Scotti, Stefano Jacini (di prossima pubblicazione), e in particolare per la Comit, di Massimiliano Majnoni d’Intignano – fornisce un supporto interpretativo che travalica la lettura dei singoli testi. Con Anton Dante Coda (1899-1959) il curatore ci conduce nel mondo dell’Istituto bancario di San Paolo di Torino, con una visuale molto ravvicinata del liberalismo (piemontese, italiano e internazionale), ma si leggono in controluce passaggi e avvenimenti che interessano la politica economica italiana e l’intero sistema bancario. L’apparato interpretativo deve aver richiesto un investimento di tempo notevole, perché occorreva sciogliere una selva di nomi e presenze che compaiono in una prosa tipica di un uomo d’azione: veloce, sintetica, e solo poche volte di tipo narrativo. Il lettore è ben guidato dalle puntuali note e dall’Introduzione biografica.

Anton Dante Coda, biellese, fu fedele seguace di Giovanni Giolitti anche nel periodo difficile degli anni Venti e restò indissolubilmente legato ai “padri spirituali”, Francesco Ruffini, Marcello Soleri, Luigi Einaudi e Benedetto Croce («la cui amicizia – scrisse Coda visitandone la salma a Napoli nel 1952 – costituì l’onore massimo della mia vita»). Direttore del giornale «La Tribuna biellese» fino alla soppressione della libertà di stampa a fine 1925, rimasto poi in contatto con gli antifascisti in Italia e all’estero, arrestato nel 1935 e prosciolto con l’aiuto di Vittorio Emanuele Orlando e di Caviglia, fu tra i protagonisti della resistenza di marca liberale prima a Torino (offrendo la sua casa per le riunioni del Comitato di tutte le opposizioni) e dopo l’8 settembre 1943 a Milano (con la formazione “Franchi” di Edgardo Sogno, nel periodo più buio dell’occupazione tedesca e della Repubblica di Salò), com’è narrato in un altro diario, di Virginia Minoletti Quarello, Via privata Siracusa (edito da Ultima spiaggia, Recco, 2016), pubblicato, per la prima volta nel 1946, a ridosso degli avvenimenti.

In considerazione del suo ruolo nella resistenza, la carica nel San Paolo gli fu offerta sotto gli auspici del governatore della Banca d’Italia, Luigi Einaudi, che conosceva Coda dagli anni Venti, nell’aprile 1946. In contemporanea, avveniva la fondazione di Mediobanca, la cui presidenza fu affidata a un altro protagonista dell’antifascismo, Eugenio Rosasco, industriale di Como, figura che è più volte citata nel Diario insieme a molti altri compagni di battaglie.

Coda, frequentemente oggetto di attacchi e opposizioni, tanto che per il suo insediamento al vertice del San Paolo dovettero trascorrere ben sei mesi, si trovò a fronteggiare le numerose crisi e scissioni dei liberali nell’immediato dopoguerra, frequentando tra l’altro a Roma l’ambiente del «Risorgimento liberale» e poi del «Mondo»; il suo Diario riporta numerosi dettagli sui difficili rapporti con la Democrazia Cristiana (nei confronti della quale Coda ribadisce più volte il suo fermo laicismo), mentre più sporadici e sfumati sono gli accenni al Partito d’Azione, a proposito del quale, pur mantenendo amicizia e rispetto per i combattenti nella Resistenza, Coda confessa la propria distanza dallo «snobismo intellettuale» che li avvicinava ai comunisti (si veda ad esempio sotto la data del 26 dicembre 1946), e ne osserva le trame «massoniche» per aggiudicarsi varie cariche.

Ma Coda non scelse la vita politica e si dimise dalle cariche del Partito nel 1949, con l’intenzione di continuare come «semplice gregario» l’assidua vigilanza per tenere distinti i liberali dai monarchici, dai nostalgici del fascismo e dai seguaci dell’Uomo Qualunque, fino alla riunificazione della corrente scissionista liberaldemocratica guidata da Carandini, nel 1951. Precise sono le sintesi delle frequenti riunioni a livello centrale e locale del Partito Liberale, nelle quali Coda svolge con energia un ruolo di mediatore e chiarificatore, dedicando molte delle proprie energie personali alla sopravvivenza dello schieramento liberale, caratterizzato da una tradizionale cultura della buona amministrazione fondata su un solido background storico, che veniva metodicamente alimentato mediante i cerimoniali in omaggio dei protagonisti scomparsi (da Cavour, a Giolitti, ai Sella, a Ruffini), cui Coda era di regola presente, anche come oratore. Un valore documentario indubbio hanno le verbalizzazioni dei colloqui con Luigi Einaudi e con Benedetto Croce, dalle lezioni di economia del primo, alle confidenze e agli sfoghi umorali di entrambi, ai bei ritratti d’ambiente con descrizione dei personaggi incontrati. Con Einaudi e Croce si valutano spesso azioni, comportamenti e affidabilità di diversi soggetti, con la chiara demistificazione di alcuni (Antonicelli, Cajumi, Merzagora, Nitti) e controversi giudizi verso altri (Salvemini).

Coda ritrae se stesso, e il Presidente Einaudi, come combattenti di dure battaglie in tempo di pace; annota con malinconia – da qui il bel titolo del volume – come fosse sempre in aumento il numero dei propri nemici, e come il Presidente Einaudi evitasse di ribattere agli ingiuriosi attacchi se non quando strettamente necessario.

Le cronache del Diario, mai prolisse e anzi sintetiche, ci portano nelle sale del Quirinale, alle sedi della Banca d’Italia, dell’IRI (e qui va segnalato che nel 1950 Coda non volle accettare di candidarsi alla successione di Enrico Marchesano alla Presidenza), mentre assai meno visitati furono i gabinetti dei ministri. Si comprendono i suoi rapporti di fiducia con Donato Menichella, con Stefano Siglienti (un protagonista della resistenza a Roma, premiato prima con la nomina a Ministro delle Finanze nel primo governo Badoglio in quota al Partito d’Azione, e poi con le Presidenze dell’Istituto Mobiliare Italiano – IMI – e dell’Associazione Bancaria Italiana), con Marchesano stesso (che Coda sperava di attirare verso i liberali) e col Ministro Giuseppe Pella, spesso visitato da Coda. Pella, democristiano biellese di origine, successore di Einaudi al Ministero delle Finanze nel 1947, europeista simpatizzante verso l’iniziativa privata, stimolò tra l’altro l’istituzione del Mediocredito Piemontese, sorto dagli accordi tra l’Istituto bancario di San Paolo e la Banca Popolare di Novara nel 1951. Coda racconta inoltre le proprie esperienze nei Consigli d’Amministrazione di grandi società elettriche, telefoniche, assicurative, e naturalmente riporta molte vicende legate al gruppo dirigente del San Paolo di Torino e al personale dello stesso, con cenni alla gestione degli scioperi e al conservatorismo dei vecchi dipendenti: sul trattamento di quiescenza «è incredibile il conservatorismo e l’egoismo di chi ha conquistato un posto. Gomitate contro coloro che avanzano e voluta ignoranza di ogni conseguenza economica per l’Istituto», annotava il 3 ottobre 1951, ma riferimento che non ha perso di attualità.

Quello che colpisce è la scelta degli episodi che Coda affida al suo Diario, sicuramente una minoranza rispetto alla totalità degli affari di cui era tenuto al corrente, e i suoi commenti non sono di carattere tecnico bancario, perfino in momenti di svolta come l’istituzione della riserva obbligatoria imposta alle banche nella primavera 1947, in un momento di preoccupante inflazione creditizia. Un fronte di particolare impegno è quello del rapporto con il Direttore Generale Carlo Pajetta e con l’amministrazione del Comune di Torino, in mano ai comunisti. Più volte il governatore della Banca d’Italia Donato Menichella insisterà affinché si nomini un soggetto più idoneo al ruolo. Coda rileva l’esistenza di un filo diretto dell’amministrazione municipale di Torino sia con l’IRI (presieduto dal piemontese Isidoro Bonini, creatura di Frassati dell’Italgas) che con la Democrazia Cristiana, che tende a scavalcare l’autonomia decisionale del San Paolo. Un consigliere democristiano del San Paolo (Pier Carlo Restagno) viene costantemente tenuto sotto controllo. Coda è attento alle pressioni dei magnati torinesi sulle nomine negli organi centrali e locali, sorvegliate e talvolta sventate da Menichella e Einaudi, ed è particolarmente severo nei confronti di aziende dissestate, in ossequio al principio einaudiano: «Le banche devono dare solo a chi può restituire. Se no gli amministratori, cedendo roba d’altri, commettono un furto e devono andare in galera» (4 settembre 1950, p. 275), con riferimento al celebre libro Other People’s Money, and How the Bankers Use It (1914) del giurista Louis Brandeis, che ebbe molto successo in America soprattutto negli anni successivi alla Grande Crisi e che viene ripreso ancor oggi con una certa frequenza. Interessanti sono i vari pareri raccolti da Coda anche presso Stefano Siglienti dell’IMI per valutare la situazione della Nebiolo, o il dissesto della Savigliano. Siamo nel periodo della nascita del FIM (Fondo per l’Industria Meccanica, che tanti fondi pubblici erogò nel tentativo di difendere l’occupazione).

La situazione della casa editrice, Giulio Einaudi resta un problema dalle prime pagine del Diario fino alle ultime: Menichella teme il possibile danno d’immagine che ricadrebbe sul padre se il dissesto diventasse di pubblico dominio. Sorprende un po’ che nel Diario non si citi al riguardo Raffaele Mattioli, che fu il costante sostenitore della casa editrice. Suscita curiosità, infine, una replica alle accuse di don Sturzo circa il «denaro caro» prestato dalle banche, letta al Rotary di Roma e rimasta inedita, testo che forse meriterebbe una pubblicazione.

Su Torino questo Diario si diffonde non poco: l’attenzione mai sopita del Presidente Einaudi per gli istituti culturali della città, la predilezione per le amicizie liberali, e un salace commento sulla scarsa attendibilità della dichiarazione fiscale degli Agnelli nel nuovo regime della riforma Vanoni. Un ruolo centrale occupa sempre il mondo della stampa, dei giornali, che hanno potere di influenzare l’opinione pubblica più delle dichiarazioni di ministri (lo dice lo stesso Coda con riferimento all’attività giornalistica che Einaudi aveva dovuto sospendere per la sua carica di Presidente della Repubblica). Il Diario contiene molti dati (irreperibili altrove) sui contributi di provenienza politica o imprenditoriale ai giornali, sui dissesti nei loro bilanci (interessanti le informazioni circa il «Risorgimento liberale» e il «Mondo» di Pannunzio), sul comportamento dei direttori delle testate di fronte alle pressioni del mondo politico (Massimo Caputo della «Gazzetta del Popolo», un giornale che sopravviveva grazie ai finanziamenti della Sip, è citato una cinquantina di volte). Coda è pronto a riconoscere i torti anche del proprio schieramento, quando il segretario politico Villabruna accetta una sovvenzione di 50 milioni dalla Democrazia Cristiana e la dichiara pubblicamente; il dubbio è che si tratti di fondi «per stabilire una catena di complicità», annotava Coda.

La lettura dei quotidiani e le conversazioni private gli consentono dunque di tenere una sorta di mappa dei compromessi e delle contraddizioni nei comportamenti che viene tramandata al Diario e giunge al lettore odierno. È evidente l’attenzione massima dell’autore per contrastare malversazioni e collusioni, e con l’andare del tempo troviamo una cronaca precisa sulle pressioni dei partiti – e della DC in particolare – per le cariche vacanti; è spesso l’amico della Resistenza Giovanni Battista Boeri a informarlo delle nomine che si profilano all’orizzonte, come nel caso della successione a Stefano Jacini alla Cariplo, scomparso improvvisamente nel 1952: anziché al prestigioso urbanista e Vicepresidente Cesare Chiodi, la Presidenza della Cariplo andrà a un personaggio di nomina politica, che fu, come noto, Giordano Dell’Amore; stupisce un passaparola su tentativi di sostituire il Governatore della Banca d’Italia Menichella con Roberto Bracco del Monte dei Paschi di Siena. Si nota inoltre in Coda un vero e proprio sgomento di fronte ai compensi stratosferici accordati ad alcuni presidenti di nomina politica, di cui veniamo a sapere nomi, date e cifre.

Nelle ultime pagine del libro s’incontrano notizie sulle nomine di direttori di quotidiani indicanti svolte di orientamento politico che segnano l’abbandono del credo liberale: Mario Missiroli al «Corriere» aprirà alla DC, ma – osserva Coda – è amico storico di Pietro Nenni e va subito a trovare Davide Lajolo de «l’Unità». Infine, l’uomo Coda, non sposato, appare un buon viveur: regolare giocatore nei Casinò, appassionato di viaggi nei siti storici e archeologici del Mediterraneo, in Francia e altri Paesi europei, intenditore d’arte e iniziatore delle belle monografie artistiche dell’Istituto bancario San Paolo, che amava consegnare a mano ad alcune personalità. Pur non avendo accettato cariche di partito, abbina sempre i viaggi turistici con visite ai gruppi liberali nelle varie località, di cui rilascia dettagliati resoconti. Un’altra chiave di lettura è infine quella della storia del teatro e dello spettacolo: mese per mese, si spazia dalla lirica al varietà, al cinematografo, soprattutto a Roma, Torino, Milano e Parigi.

Francesca Pino

Francesca Pino, storica e archivista, già direttore dell’Archivio storico di Intesa Sanpaolo

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Le leggi razziali scritte sulla pelle e nel cuore https://www.fondazione1563.it/leggi-razziali-scritte-pelle-cuore/ Thu, 22 Nov 2018 13:45:52 +0000 http://www.fondazione1563.it/?p=15787 Un articolo di Elena Loewenthal

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Le leggi razziali scritte sulla pelle e nel cuore
“Alla mostra che espone i registri con i beni sequestrati a mia nonna”

Se ne parla tanto, in questo periodo. È diventato una specie di slogan, un’etichetta, una pietra di paragone, l’unità di misura di un test a crocette. Per me, invece, il fascismo sta tutto in una delle quasi trecento pagine dell’inventario «Antroponimi» dell’Egeli – l’«Ente Gestione e Liquidazione Immobiliare», creato nel 1939. La voce 696 porta il nome di mia nonna Ida Falco Loewenthal, sia benedetta la sua memoria. È una cartellina opaca, irruvidita dal tempo. Dentro c’è la documentazione superstite relativa ai beni di mia nonna sequestrati dopo l’entrata in vigore delle Leggi Razziali. In fondo, in quella cartellina non trovo soltanto la mia definizione di «fascismo»: lì dentro c’è quello che sono. Mio malgrado. Ci sono le mie convinzioni e le paure che mi porto dietro, ci sono i dubbi che mi assillano, c’è il confine della mia ansia, c’è quello che voglio tramandare ai miei figli. Ci sono i silenzi che circondavano la mia infanzia, c’è lo sguardo sempre un poco smarrito di mio padre e mia madre. Questo e altro, ha fatto a me il fascismo.

Con l’entrata in vigore delle Leggi Razziali, il regime di Mussolini ordinò a una serie di banche sul territorio italiano di creare un ente apposito per inventariare, valutare e provvedere al sequestro – o alla confisca, che spesso era una pratica più breve ed efficace – dei beni ebraici. In Piemonte e Liguria toccò al San Paolo di Torino mettere in piedi questa complessa organizzazione fatta di funzionari che bussavano alle porte di case e aziende con carta e matita in mano, annotavano tutto, procedevano al sequestro, gestivano i beni e le attività incamerati. Sono centoequindici metri lineari di documenti con oltre seimila e trecento fascicoli conservati presso la «Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo», nella sua sede di piazza Bernini 5, dove domani si apre la mostra «Le case e le cose. Le leggi razziali e la proprietà privata».

Fra le banche italiane incaricate di creare l’Egeli e portare avanti la «consegna» imposta dalle Leggi Razziali, il San Paolo è la prima ad avere preso in mano questa scomoda storia in nome di una responsabilità umana e morale. Merito del presidente Piero Gastaldo, del direttore della Fondazione 1563, Anna Cantaluppi (curatrice dell’Archivio storico della Compagnia di San Paolo fin dalla sua costituzione nel 1986) e della squadra di lavoro. Merito del lavoro dello storico Fabio Levi, che da anni lavora su questi documenti. Il progetto è ampio, mira a creare uno spazio permanente di «Digital Humanities» intorno a questo passato, in cui discipline e documenti di diverse provenienze possano incontrarsi grazie alle potenzialità della rete.

La mostra che resterà aperta sino a fine gennaio 2019 racconta tutto il lungo processo di catalogazione, sequestro, gestione e restituzione dei beni ebraici attraverso i documenti estratti dall’archivio, con un corredo di foto per dare alle storie corpo e volti. Come quello di Primo Levi nella tenuta Saccarello (strada comunale di Superga) della sua nonna materna Adele Luzzati, fra tre degli alberi che il solerte funzionario non manca di inventariare per il sequestro, insieme alla casa, gli interni, le macchine agricole, gli arredi.

È tutto così terribile e doloroso, fra quelle carte. Dentro quei registri scritti a mano: c’è quello della «Rubrica per Vie – Ebrei Sequestrati», c’è la «Rubrica – Ebrei», ci sono gli «Ebraici Confiscati», e gli «Ebraici Sequestrati». Sfogliando quei libri, aprendo i fascicoli, trovo scritto «razza ebraica» talmente tante volte che mi gira la testa e devo alzare lo sguardo verso la luminosa sala di consultazione, affinare l’udito e sentire il ticchettio del computer alle mie spalle, per assicurarmi di non essere precipitata in quel passato. «Razza Ebraica» sta scritto infinite volte anche nel corposo dossier su Leone Sinigaglia e la sua casa di Cavoretto. Con quell’ottusità di cui solo la burocrazia è a volte capace, l’Egeli pensò bene di sequestrargli formalmente la casa il 23 novembre del 1944, sei mesi e sette giorni dopo che il compositore era morto di crepacuore all’ospedale Mauriziano, per paura dei tedeschi e della deportazione. Il processo disgregatore era cominciato ben prima di allora, con l’ordine di “amministrazione provvisoria” per tutti i suoi beni mobili e immobili. Dopo l’incursione aerea che si abbatté su Cavoretto l’1 dicembre del 1943, il “capo della Provincia” decretò che le ville appartenenti a persone di razza ebraica venissero messe a disposizione dei «sinistrati». Oggetti, indumenti, biancheria, mobili. Tutto. I locali di casa Sinigaglia vengono svuotati, parte dei beni assegnati agli sfollati, parte custoditi nei depositi dell’Educatorio Duchessa Isabella, per poi finire oggetto di «arbitraria appropriazione» da uomini della guardia nazionale repubblicana Leonessa e militari del comando tedesco. Persino gli alberi del giardino furono tagliati per farne legna da ardere.

Questo è ciò che dice a me la parola «fascismo». Non è uno slogan, né una pietra paragone. Non è il luogo comune che a volte è diventato. Sono quelle carte che il tempo ha reso fragili e diafane, ma l’inchiostro degli elenchi, delle cifre, dei provvedimenti è così nitido che sembra inciso sul foglio. È la sequenza di nomi dentro quei registri, in cui trovo tutti quelli della mia famiglia. Non uno di meno.

in “La Stampa” del 21 novembre 2018

Elena Loewenthal (Torino, 1960), studiosa di ebraismo e scrittrice, ha tradotto in lingua italiana numerose opere di autori israeliani per Feltrinelli, Einaudi, Mondadori. Ha pubblicato saggi tra i quali L’ebraismo spiegato ai miei figli (Bompiani, 2002) e Miti ebraici (Einaudi, 2016); con il suo primo romanzo, Lo strappo dell’anima. Una storia vera (Frassinelli, 2002), ha vinto il premio Grinzane Cavour come giovane autrice esordiente. Collabora con il quotidiano «La Stampa».

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Cultura, arte, società al tempo di Juvarra https://www.fondazione1563.it/recensione-juvarrra-viale-ferrero/ Tue, 05 Jun 2018 09:36:20 +0000 http://www.fondazione1563.it/?p=14908 Recensione a cura di Mercedes Viale Ferrero

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Cultura, arte, società al tempo di Juvarra

Ho avuto il piacere di leggere il “Quaderno” [Cultura, arte, società al tempo di Juvarra, a cura d G. Dardanello, Quaderni sull’Età e la Cultura del Barocco. Quaderni delle borse di alti studi e dei premi, Casa Editrice Leo S. Olschki, Firenze 2018] in bozze; il piacere si è accresciuto quando mi è giunta l’edizione in volume e ne ho ammirato l’aspetto di raffinata eleganza, la nitida impostazione grafica. Affascinante è stato scorrere le tavole illustrate, disposte con metodo e sapienza, che propongono precisi confronti, suggeriscono illuminanti accostamenti, delineano molteplici intrecci stilistici in forma quasi di racconto parlante. Ora mi propongo di rileggere il “Quaderno” seguendo non l’ordine delle pagine ma un percorso trasversale che metta in vista i possibili punti d’incontro tra saggi di argomenti diversi.

Per iniziarlo credo che la parola chiave sia ‘spettacolo ‘: lo spettacolo della magnificenza si dispiega nei progetti di mobili e arredi studiati da Sara Martinetti; uno spettacolo cerimoniale potevano offrirlo gli scaloni dei palazzi, luoghi da visitare guidati da Roberto Caterino. Gli spettacoli sono al centro dello studio di Nicola Badolato, Juvarra e il rinnovamento del gusto teatrale e operistico a Roma nel primo Settecento. Qui si incontra un’altra parola: ‘rinnovamento’ che presuppone una dinamica temporale, un ‘prima’ e un ‘dopo’, un ‘come’ e un ‘perché’. Quanto al tempo, momento iniziale è la costruzione del teatro privato del cardinale Ottoboni nel palazzo della Cancelleria in cui si svolgeranno le successive stagioni d’opere in musica. Il ‘perché’ va cercato nella adesione all’idea concettuale dell’unità e pari dignità delle arti; il ‘come’ nell’accresciuta sensibilità che stimola il variare degli effetti ed affetti rappresentati. Di conseguenza il teatro operistico non è più soltanto la somma di tre parti distinte – un libretto, uno spartito, uno scenario – ma il loro concorrere all’espressione di un programma significativo; idea tanto anticipatrice da essere ancora oggi attuale. Il ‘rinnovamento’ fu favorito da molte circostanze: l’irradiazione ideologica della accademia d’Arcadia; l’intervento di un gruppo elitario di promotori, in primo luogo il cardinale Ottoboni e al seguito suo padre, Antonio; la regina di Polonia; il cardinale Albani e altri illustri patroni. Si aggiunga la presenza di compositori di grido, alcuni tuttora celebri come Alessandro e Domenico Scarlatti, altri meno noti ma eccellenti, Caldara, Gasparini, Pollaroli.

Uno solo fu invece l’architetto teatrale e inventore delle scene: Filippo Juvarra, unico al punto da farci riflettere sul suo effettivo ruolo, se di geniale interprete di trame drammatiche o non piuttosto di inventore di una funzione del teatro operistico come mondo parallelo in cui le architetture fittizie prefiguravano le costruzioni reali, i panorami immaginari evocavano specifici stati d’animo. Di certo, anche dopo il termine degli spettacoli alla Cancelleria, le invenzioni di Juvarra continuarono ad ispirare gli scenografi che peraltro le potevano conoscere soltanto dalle incisioni nei libretti del teatro Ottoboni. Oggi invece, grazie ai disegni, possiamo seguirle dai primi ‘pensieri’ alle successive elaborazioni, alle ricerche di soluzioni alternative, alle scelte finali.

Prova convincente delle straordinarie possibilità offerte da questo prezioso materiale disegnativo è la pubblicazione dello spartito di Alessandro Scarlatti per il Ciro a cura di Nicola Badolato che ha premesso a ciascuna mutazione di scena le immagini dei disegni e delle incisioni di Juvarra. Sfogliarne le pagine è come entrare in una macchina del tempo e riappropriarsi di uno spettacolo remoto ma non perduto. Ritroviamo qui la parola ‘spettacolo’, che in unione a ‘disegni’ ci introduce al fondamentale saggio di Giuseppe Dardanello: Libri di disegni e pensieri. Prospettive per il Corpus Juvarrianum.

Se si seguono in questo scritto la nascita degli studi juvarriani nel Novecento, poi via via il crescente numero di pubblicazioni antecedenti al progetto del Corpus tracciato nel 1971 da Vittorio Viale e Rudolph Wittkover, quindi le notizie dei volumi del Corpus finora usciti si ha l’impressione di una grande quantità di lavoro già svolto e di molte conoscenze già acquisite. Ma se si continua a leggere e si scorre l’elenco ragionato di quanto resta da fare ci si accorge che i disegni di Juvarra sono un universo ancora per molta parte inesplorato. Resta da pubblicare integralmente e criticamente l’album segnato Ris59.4 della Biblioteca Nazionale di Torino che fu radunato e ordinato proprio da Juvarra ed è dunque una testimonianza autentica – ma ancora da decifrare – dei suoi intenti, dei suoi progetti e forse perfino del suo animo. Resta da pubblicare anche l’album Ris59.1 che documenta l’attività di Juvarra architetto e studioso di teatri, in stretta connessione storica con i Pensieri e apparenze di scene per Ottoboni e la sua cerchia conservati nel Victoria and Albert Museum e ancora non entrati nel Corpus. La vastità degli interessi artistici e intellettuali di Juvarra si riconosce nella varietà dei temi a cui si accosta in altri volumi: dalla didattica della Galleria Architettonica alla raccolta manualistica delle Targhe, alle visioni dell’antichità rivisitata con lo studio e rianimata dalla fantasia nelle Prospettive ideali per Lord Burlington e Augusto II di Sassonia; senza dimenticare i disegni pochissimo noti dei Geroglifici sopra l’iconografia del Ripa che partendo dalla ricerca di temi utili per la decorazione architettonica la estende fino ad elaborare un mondo di simboli e figure di cui non è stata ancora tentata una interpretazione significativa. Il Corpus può permetterci (cito Dardanello) di ‘tornare a entrare sulla punta dei piedi e con tutta la delicatezza del caso nel laboratorio del pensiero di Juvarra’.

Mercedes Viale Ferrero

[intervento al Salone per il libro di Torino, 14 maggio 2018]

Mercedes Viale Ferrero (Torino, 1924), storica dell’arte, ha curato mostre e pubblicato studi su teatro musicale e scenografia dall’età Barocca al Novecento. Sull’architetto di corte messinese ha pubblicato il volume Filippo Juvarra scenografo e architetto teatrale (Edizioni d’Arte Fratelli Pozzo, 1970).

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La riscoperta del Seicento https://www.fondazione1563.it/recensione-angelini-riscoperta-seicento/ Wed, 04 Apr 2018 11:36:52 +0000 http://www.fondazione1563.it/?p=14284 Recensione a cura di Alessandro Angelini su "Studi Piemontesi"

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La riscoperta del Seicento. I libri fondativi

È stata davvero una felice idea quella, maturata nell’ambito della Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo di Torino, di dare alle stampe una nutrita serie di saggi scritti da diversi autori e dedicati rispettivamente ciascuno ad uno dei libri fondamentali che hanno segnato la riscoperta del Seicento nella storiografia artistica del XX secolo. La cura di questo primo volume facente parte di una più ampia collana diretta da Michela di Macco e Giuseppe Dardanello, è stata affidata ad Andrea Bacchi e a Liliana Barroero, che hanno organizzato una perfetta regia su un tema così vasto e che costituisce da sempre terreno fertile e privilegiato delle loro stesse ricerche. In fondo la ‘riscoperta’ e la piena valorizzazione della civiltà figurativa secentesca è fenomeno storiografico relativamente giovane e la considerazione di quel secolo come uno delle epoche davvero auree della storia dell’arte una presa d’atto ancor più recente. Giustamente il titolo del volume indica come oggetto d’interesse il Seicento in senso lato, senza perdersi nel labirinto ambiguo e avvolgente del termine barocco. Quest’ultima infatti è divenuta una definizione sempre più elastica e onnicomprensiva, specie nel mondo degli studi anglosassoni, così da rendersi quasi del tutto fuorviante. Se all’interno di questa categoria critica tradizionale – barocco appunto – possiamo comprendere artisti come Pietro da Cortona, Poussin e perfino Caravaggio e Annibale Carracci, tanto vale abolire del tutto questo termine, che ha finito per perdere qualsiasi pregnanza semantica.

Opportunamente i testi presi in esame hanno inizio con quelli di due padri fondatori della storiografia artistica moderna in lingua tedesca, Heinrich Woelfflin (Renaissance und Barock: eine Untersuchung ueber Wesen und Entstehung des Barockstils in Italien, 1888) e Alois Riegl (Die Entstehung der Barockkunst in Rom, 1908). Con le opere di questi due autori ai quali sono dedicati i saggi di Elisa Coletta e di Arnold Witte, siamo ancora alle ricerche tra Ottocento e Novecento maturate in seno alla Scuola di Vienna, ad una prestigiosa tradizione storiografica alla quale si riallaccia sia pur indirettamente lo stesso Hermann Voss (Die Malerei des Barock in Rom, 1924), sul quale è incentrato il testo di Valeria di Giuseppe di Paolo. Non è un caso, mi sembra, che con questi autori più antichi si siano cimentati studiosi più giovani, freschi dei loro anni di dottorato, che hanno intrapreso le ricerche con il distacco scientifico di chi affronta argomenti di un ormai lontano passato.

La maggior parte degli altri studiosi, spesso più maturi, affronta invece autori che hanno conosciuto personalmente, o alle cui vicende storiografiche comunque restano più direttamente coinvolti. È il caso, ad esempio, di Giovanni Romano, che tratta qui da par suo del saggio magistrale scritto da Giuliano Briganti su Pietro da Cortona o della pittura barocca nel 1962, che deve aver costituito un punto di riferimento anche nei propri studi dedicati al Seicento piemontese e non solo. È anche il caso di Tomaso Montanari, impegnato qui con il celebre Patrons and Painters (1963) di Francis Haskell, uno studioso che imparò a conoscere quando egli era ancora giovanissimo allievo di Paola Barocchi alla Scuola Normale Superiore di Pisa, cogliendo spunti e motivi dal suo magistrale insegnamento sui rapporti fra artisti e committenti in quel secolo cruciale. E anche Lucia Simonato, che svolge qui una densa e serratissima recensione a Roman Baroque Sculpture: an Industry of Art (1989) di Jennifer Montagu, ha certamente subito il fascino di un testo che ha avuto modo di orientare almeno in parte le ricerche di tutti quelli che, nel corso dell’ultimo ventennio, si sono dedicati a questo argomento, che prima era rimasto in buona parte vergine.

I curatori del volume da parte loro si sono assunti due ardui incarichi che hanno portato avanti, a mio parere, con notevole bravura. Andrea Bacchi presenta Studies in Seicento Art and Theory di Denis Mahon comparso nel 1947 ed esamina in modo accurato le molte posizioni critiche che si sono affrontate attorno a questo libro per certi versi esemplare, ma anche molto contestato nel suo assunto di fondo. La discussione riguarda infatti il rapporto tra testi teorici e pratica delle arti nel corso dei Seicento e quindi il saggio così articolato di Bacchi, aldilà dell’occasione specifica, percorre l’intera storiografia del dopoguerra rivolta a questo tema controverso. Il problema è infatti che le teorie accademiche secentesche, a partire da quelle esposte dal suo più alto rappresentante in campo storiografico, Giovan Pietro Bellori, sembrano risultare sempre inadeguate a render conto degli sviluppi più sperimentali e innovativi dell’arte contemporanea: dal naturalismo caravaggesco, al pittoricismo guercinesco, fino alla dimensione tentacolare della produzione berniniana. Essendo Mahon soprattutto un grande studioso di Guercino e in particolare della fase giovanile del pittore di Cento, la più estrosa e innovativa, riflette nei suoi studi questa apparente divergenza, che solo le ricerche di una generazione a noi più vicina è riuscita in parte a riassorbire. Liliana Barroero si confronta invece con Caravaggio di Roberto Longhi nelle edizioni del 1952 e poi del 1968, quindi con il maggiore tra gli storici dell’arte italiani vissuti nel XX secolo, in quello che fu il suo testo monografico forse più maturo, quasi il distillato di più di cinquanta anni di riflessione sui fatti del naturalismo secentesco. Come ricorda la studiosa, Longhi affrontò questo tema fin dagli anni della sua tesi di laurea discussa con Pietro Toesca nel 1911 e per tutta la vita il tema Caravaggio restò il fil rouge che tenne unite le molte stagioni della sua lunga opera storiografica.

Ad uno dei curatori della intera collana dei libri, Michela di Macco, si deve un lucido intervento basato anche su documenti inediti come il carteggio di vari storici dell’arte, dedicato ad uno dei libri più importanti che siano usciti nel dopoguerra sulla fortuna dell’antico e in particolare delle sculture antiche nel Rinascimento e nella prima età moderna: quello di Francis Haskell e di Nicholas Penny dal titolo Taste and the Antique: the Lure of Classical Scultpure, 1500-1990 (1981). Di Macco dimostra, ponendo in serie una dopo l’altra le varie recensioni apparse a suo tempo su questo volume, come la sua comparsa sia stata accolta, oltreché da plauso, anche da molte critiche (indicativa quella severa di Jennifer Montagu) delle quali gli autori fecero tesoro per l’edizione italiana uscita da Einaudi nel 1984. Proprio l’impegno per questa edizione italiana riflette il continuo e proficuo scambio tra i due studiosi inglesi e alcuni dei maggiori storici dell’arte italiani del tempo su questo tema cruciale, che gli autori avevano trattato con una concretezza esemplare e una netta distanza da vaghe astrazioni sul concetto di ‘gusto’, allora ancora presenti nella cultura di matrice idealistica. A proposito di coinvolgimento critico e di discussioni ancora aperte sui grandi temi della storiografia artistica, si può leggere come istruttiva la nota 29 di p. 165 nel saggio che Giovanna Perini Falesani dedica a The Ideal of Painting: Pietro Testa’s Duesseldorf Notebook di Elizabeth Cropper del 1984, dove la studiosa esprime un parere molto severo, finanche ingeneroso, sulle posizioni di Longhi e sulla sua vasta eredità nella critica d’arte in Italia fino ad oggi.

La ricchezza e la varietà di questo volume consiste proprio nella brillante polifonia alla quale hanno collaborato studiosi di diverse nazionalità e scuole, di varie generazioni e sensibilità, che hanno svolto con rigore e passione un compito non facile, destinato a restare di grande utilità per coloro che intraprendono i loro studi in campo storico-artistico.

Alessandro Angelini

[“Studi Piemontesi”, dicembre 2017, vol. XLVI, fasc. 2]

Alessandro Angelini (Siena, 1958), docente di Storia dell’arte moderna presso l’Università degli Studi di Siena, ha pubblicato articoli e saggi e curato cataloghi di mostre e studi monografici; i principali ambiti della sua ricerca spaziano dalla pittura e scultura in Toscana tra i secoli XV e XVI a Gian Lorenzo Bernini e la scultura e le arti figurative in genere nella Roma del Seicento.

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Silvia Margaria https://www.fondazione1563.it/silvia-margaria/ Tue, 20 Feb 2018 09:15:40 +0000 http://www.fondazione1563.it/?p=14085 Lo sguardo di un’artista sui fondi fotografici dell'Archivio Storico

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I Talismani di Silvia Margaria
Lo sguardo di un’artista sui fondi fotografici dell’Archivio Storico della Compagnia di San Paolo

Giugno 2016, in partenariato con Intesa Sanpaolo e insieme alla società Promemoria srl, la Fondazione 1563 ha realizzato il progetto Punctum. Working papers con l’obiettivo di promuovere gli archivi in quanto enti dinamici e non più semplici contenitori del passato, punti di partenza per una contemporaneità creativa.

Il progetto ha voluto valorizzare i fondi dell’Archivio Storico della Compagnia di San Paolo attraverso l’arte contemporanea. Sono stati selezionati dieci giovani artisti perché realizzassero opere originali a partire da un gruppo di foto storiche – 101 in totale, da fine Ottocento agli anni Settanta del Novecento, riguardanti il lavoro della banca e le sedi dell’Istituto San Paolo di via di Monte di Pietà e di piazza San Carlo a Torino e altre filiali del territorio – fra le quali ciascuno ha scelto per la propria ispirazione.

Gli artisti hanno così lavorato con gli archivisti specialisti sui fondi fotografici per realizzare un gruppo di opere che sono state acquisite dalla stessa Fondazione.

Il progetto si è concluso con l’esposizione delle opere presso la Serra bioclimatica al 36° piano del Grattacielo di Intesa Sanpaolo a Torino dal 28 ottobre al 7 novembre 2016, in concomitanza con la settimana delle fiere d’arte contemporanea.

Silvia Margaria, Talismani, particolare, 2016, due light box.

Silvia Margaria, Talismani, particolare, 2016, due light box.

Nell’occasione della mostra sono state esposte anche le riproduzioni delle fotografie storiche e una video-narrazione del progetto in tutte le sue fasi.

L’artista Silvia Margaria ha realizzato l’opera Talismani. Si tratta di due light box in cui ha sovrapposto due diapositive, da lei stessa recuperate da una pubblicazione del cardiochirurgo Christiaan Neethling Barnard, rappresentanti il trapianto di un cuore, al particolare delle mani degli impiegati del Monte dei pegni raffigurati nella foto storica scelta, associando i gesti di chi ritirava gli oggetti al banco dei pegni al valore sentimentale rappresentato per chi li lasciava.

L’artista usa queste parole per farci entrare nella sua opera: “Dalle fotografie d’archivio fornite dalla Fondazione 1563 ho selezionato quelle che raffigurano il banco dei pegni. Ciò che più mi colpisce in queste immagini è l’accumulo di oggetti che fanno immaginare, accatastati nei depositi. Cosa accomuna tutte queste cose? La lista degli oggetti del Monte di pietà diventa un modo per rimescolare il mondo. Sono oggetti alla deriva, oggetti ‘talismano’ perché ‘stanno per’ qualcosa, sono “muti pezzetti di vita” come scrive Elena Loewenthal ne Una giornata al Monte dei pegni: “Le cose tacciono, siamo noi che ci illudiamo di ascoltarle. Come ci si congeda dalle cose, prima di lasciarle? Meglio l’indifferenza o un brandello di cuore che se ne va?”. Al banco dei pegni si maneggiano pezzetti di cuore”.

Maria Stella Circosta, Fondazione 1563

Silvia Margaria (Savigliano, 1985), vive e lavora a Torino, dove si è laureata presso la locale Accademia Albertina di Belle Arti. Il suo lavoro artistico è supportato dalla costituzione di un archivio personale composto da materiale fotografico e filmico ‘dimenticato’, che recupera e cataloga.

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